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Le distanze sociali crescono e la Rete dà voce al rancore


La foto di Gianni Berengo Gardin, scattata nel 1965 a Oriolo Romano, fa parte di una retrospettiva in mostra al palazzo delle Esposizioni di Roma dal 19 maggio al 28 agosto

Le nuove disuguaglianze. L’apartheid dei giovani nel lavoro e l’aumento del divario Nord-Sud. Il vuoto politico, lo sfogatoio nel Web. Negli Stati Uniti il successo di Trump e Sanders segna l’affermarsi di un’agenda alternativa.

Non tutte le disuguaglianze sono uguali. Il dibattito sull’approfondirsi delle distanze economiche e sociali ha in questo momento il suo focus negli Stati Uniti anche perché al di là dell’Oceano con i risultati delle primarie per la conquista della Casa Bianca risulta più evidente il legame tra sentimenti/percezioni prevalenti nella popolazione e spostamento dei consensi politici. Non sempre il link è così immediato e quando si verifica favorisce sicuramente il compito degli analisti e dei sociologi che possono fare il percorso a ritroso e da una fenomenologia di tipo politico risalire alle motivazioni a monte e agli slittamenti prodotti in questo o in quel segmento dell’opinione pubblica. È il caso per l’appunto delle riflessioni sul doppio e sorprendente successo di Donald Trump e Bernie Sanders, visto come effetto della centralità conquistata nell’agenda degli americani dal tema della disuguaglianza. Ora, è sempre complicato dentro un sentimento di rivendicazione così ampio tentare lo spezzatino, scindere le singole componenti e differenziare la lettura indicando la prevalenza di un tema trasversale o delle istanze di uno strato sociale, ma si può dire che la parola d’ordine «1% contro 99%» lanciata da Occupy Wall Street è quella che sembra aver fatto maggiormente breccia. Una su tutte. È diventata popolare puntando il dito contro l’aprirsi di una voragine di reddito e di patrimonio tra i pochissimi e i moltissimi e indicandola come il principale riflesso della Grande Crisi.

La situazione italiana

Trasferendoci di botto in Italia, oltre a registrare il pieno in libreria di saggi sulla disuguaglianza, possiamo dire che siamo in presenza di un sentimento analogo a quello americano? Da noi innanzitutto sembra mancare la prima condizione: il grande avversario. Sarà perché abbiamo poche grandi imprese, non c’è una casta sufficientemente estesa di banchieri e/o super manager usciti dalla recessione con un’impennata dei propri emolumenti e più in generale della propria ricchezza. Se c’è un soggetto che ha saputo affrontare la crisi del Pil riorganizzandosi al suo interno e incrementando le esportazioni sono le multinazionali tascabili del made in Italy, non c’è evidenza però che questi successi abbiano generato impennate milionarie sulle paghe dei manager di punta. Ad aver acceso l’attenzione della stampa sono state caso mai le generose buonuscite concesse a dirigenti che pure non hanno lasciato dietro di sé clamorosi rimpianti oppure i super-emolumenti della dirigenza della Popolare di Vicenza o di Veneto Banca carpiti grazie ad uno scambio di favori di impronta localistica. Pur non avendo dunque la sperequazione salariale conquistato una sua centralità politica va comunque registrato un dato comparato Ocse, fermo al 2010, che indica un allargamento in Italia dell’indice di Gini — che misura la forbice dei redditi — in linea con Regno Unito e Francia e quindi tra i più alti d’Europa.

Nel caso italiano, dunque, non è tanto la polarizzazione estrema degli introiti a generare una diffusa percezione di aumento delle disuguaglianze quanto invece l’allargarsi delle già ampie differenze territoriali tra Nord e Sud e ancor di più il drastico blocco generazionale segnalato dall’elevata disoccupazione nella fascia d’età dai 25 ai 34 anni. In una società come la nostra, che forse non ricorda nemmeno più quando si è verificato l’ultimo ciclo significativo di mobilità sociale, il mancato sbocco sul mercato del lavoro dei giovani ingessa l’intera struttura sociale. Genera quella sensazione di apartheid già individuata da tempo da Pietro Ichino proprio sulle colonne di questo giornale. Di conseguenza è ovvio che molti analisti vedano nella capacità del Movimento Cinque Stelle di occupare uno spazio pari a circa un quarto dell’elettorato un riflesso diretto della questione generazionale e del resto questa valutazione trova conferma (aritmetica) nel peso decisivo del voto giovanile nella composizione dei consensi grillini.

Il voto dei giovani

A stabilizzare quest’egemonia in diverse tornate elettorali e nei sondaggi ha concorso l’incapacità degli avversari di Cinque Stelle di competere con efficacia sul segmento giovanile o quantomeno di tentare di fare i conti con il «mostro» della disuguaglianza. Matteo Renzi nella campagna elettorale per le europee del 2014 aveva direttamente conteso il voto fluttuante a Beppe Grillo, ma allora l’agenda politica privilegiava i temi dei costi della politica e con una strategia che è stata definita dai commentatori come «populismo dolce» il premier riuscì a contenere e ribattere l’avanzata del partito dei Casaleggio. Con la disuguaglianza non sta accadendo niente di simile: vuoi per l’infinita querelle statistica sui numeri del jobs act vuoi per il timore di evocare un tema al quale si teme di non saper dare risposte congrue, l’aumento delle distanze sociali viene di fatto derubricato. È vero che nel lessico dei candidati sindaco del Pd — l’esempio è Beppe Sala a Milano — ricorre spesso la coppia «innovazione/inclusione»: nelle intenzioni dovrebbe essere una classica risposta socialdemocratica davanti al palesarsi di fenomeni di marginalità sociale, nei fatti l’inclusione è una parola/proposta che viene compresa solo da un’audience colta e che sembra voler rassicurare soprattutto chi la pronuncia piuttosto che chi la ascolta. Di sicuro non ha effetti pratici, non sposta l’orientamento e tantomeno il consenso. Resta infatti sul campo la sensazione di molti giovani, e non solo, di essere inadeguati rispetto all’Innovazione, che finisce per presentarsi ai loro occhi munita di una minacciosa maiuscola.

Arrivati a questo punto bisogna però saltare per un momento dal freddo della sociologia al caldo della comunicazione e rendersi conto di come la Rete abbia cambiato la stessa fenomenologia del disagio. Prima gli studiosi indicavano tra le evidenze della marginalità sociale anche la mancanza di «voce», la difficoltà nel farsi sentire, nel riuscire a proporre all’attenzione generale la propria condizione e le proprie rivendicazioni. Oggi grazie alle infinite possibilità fornite dai social network i problemi di accesso primario, di agorà, sono stati superati e non a caso è proprio la Rete il luogo dove si può facilmente tracciare una mappa del rancore, una continua e a volte esasperata denuncia della disuguaglianza. Chiunque ottenga un successo è sospettato di averlo conseguito grazie ad appoggi indebiti e comunque di aver alterato la competizione meritocratica. Se vogliamo si è prodotta per questa via (la Rete) una moderna forma di intermediazione sociale, molto differente dalle classiche perché non prevede la mobilitazione fisica e la formazione di un soggetto stabile di rappresentanza/lobby ma si limita alla denuncia (spesso all’ingiuria) o tutt’al più organizza qualche flash mob. La sola presenza dello sfogatoio-Rete però tende a ridefinire comunque l’azione dei sindacati che restano a presidiare la vecchia tutela degli insider — i contrattualizzati e i pensionati — con minore forza d’urto rispetto a ieri. Le confederazioni intuiscono che la mappa delle disuguaglianze attorno a loro si sta rimodulando e tentano di produrre delle sintesi-progetto che rimangono per ora ai nastri di partenza. Vale per la Carta dei diritti universali elaborata dalla Cgil o per la Coalizione sociale inventata da Maurizio Landini.

La «soluzione» della crescita

Una corrente di pensiero piuttosto ampia sia tra i politici sia tra gli economisti sostiene che tutto si risolve con la crescita del Pil, che dovrebbe rappresentare quel grande passepartout capace di risolvere tutte le contraddizioni o quantomeno di metterle in fila per poterle affrontare una dopo l’altra, comprando tempo. Purtroppo non esiste la prova della bontà di quest’argomento perché alla recessione non sta seguendo una ripresa degna di questo nome e nella quantità che avremmo sperato. Senza evocare i cicli economici di una volta, che si alternavano con una loro coerenza, avremmo comunque avuto bisogno di crescere al 2% per attutire l’impatto della disuguaglianza e invece le stime Istat ci parlano di un incremento totale dell’1,1% per il 2016 e di una cifra analoga per l’anno successivo. Poca roba rispetto alla necessità che abbiamo di «ridurre le distanze». Non sarà quindi lo strumento Pil, almeno nelle proporzioni date, quello capace di riassorbire le larghe contraddizioni prodotte da alcune distorsioni strutturali della nostra società unite agli effetti perversi della Grande Crisi. Con questi numeri l’ascensore sociale non sembra in grado di ripartire e non c’è storytelling governativo — o di qualsiasi altra agenzia politica — che tenga. La percezione della disuguaglianza crescente è destinata a restare stabile se non addirittura ad aumentare e farci i conti non vuol dire certo deviare da quel percorso di antropologia positiva al quale chi governa, o comunque fa politica con senso di responsabilità, deve necessariamente attenersi. La società italiana non ha più il baricentro del ceto medio e ne soffre in primo luogo chi amministra perché vengono a mancare tradizionali punti di riferimento e di stabilizzazione, ma ne soffre anche molto il centro-destra che in questa notte buia sembra aver perso qualsiasi bussola che lo riconduca alla reale geografia delle classi.



http://www.corriere.it/cronache/16_maggio_22/diseguaglianze-capitalismo-distanze-sociali-crescono-af2c35f4-1f8e-11e6-8875-c5059801ebea.shtml

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