(Great Depression '30 -I) Nascita dell'industria pubblica italiana: l'IRI
L’indice azionario Dow Jones di New York perse il 90% del suo valore in 3 soli anni.
La crisi economica del 1929 era scoppiata proprio nel momento in cui il Presidente degli Stati Uniti dichiarava alla nazione che mai nessun paese aveva goduto di una prosperità eguale (John Calvin Coolidge Jr...
Negli anni ’20 vi era stata una ripresa economica mondiale ed un boom di Borsa (azioni quotate 10 volte il loro valore reale) dovuto ad innovazione tecniche riguardanti la produzione di massa di apparecchi telefonici,telegrafici e radiofonici. Per la prima volta della storia umana era possibile udire in diretta la voce di tutte le persone e le informazioni potevano essere trasmesse in tempo reale. La carta stampata era improvvisamente diventata obsoleta. Il tutto si era sgonfiato e molti risparmiatori e speculatori si erano ridotti sul lastrico, ma in compenso i curatori fallimentari si trovarono con un sacco di lavoro...
Dopo il 1925 terminata l’infatuazione per i titoli radiotelefonici crollati in Borsa la speculazione si scatenò sui titoli bancari, immobiliari ed assicurativi. La gigantesca bisca mondiale accompagnata ad una sovrapproduzione si sgonfiò nell’ottobre del 1929 e questa volta i curatori fallimentari, le polizie giudiziarie, i coroners, tutti dovettero ricorrere agli straordinari. Tutti gli Stati per proteggersi ricorsero al protezionismo e questo causò una reazione a catena causando il crollo del commercio internazionale e con esso la produzione di ogni nazione. Keynes aveva suggerito che il modo migliore per uscire dalla crisi era una serie di investimenti pubblici nelle infrastrutture, nella sanità, nella scuola, anche a costo di avere un deficit di bilancio ma allo scopo preciso di rilanciare la domanda aggregata e quindi tutto il ciclo economico.
E questo infatti divenne poi il programma del presidente americano F.D.Roosevelt con il cosiddetto “New Deal"
L’industria manifattura italiana dal 1922 al 1925
L’industria manifattura italiana dal 1922 al 1925 aveva avuto tassi di crescita del 5% in sintonia con la ripresa mondiale ma quando tra la seconda metà del il 1925 ed il 1926 la domanda mondiale cessò di crescere la debolezza di uno sviluppo guidato dalla esportazioni divenne manifesta. Questa situazione fece peggiorare ulteriormente la bilancia dei pagamenti e quindi la quotazione della lira perse il 23% del proprio valore esterno tra l’aprile e l’agosto 1926, dando così nuova forza ai gruppi politici ed economici che puntavano ad una stabilizzazione del cambio come premessa a quello oggi si direbbe un “diverso modello di sviluppo”basato sui consumi interni: l’autarchia.
Con il discorso a Pesaro del 15 agosto 1926 Mussolini, (dittatore dal 1922 al 1945, che aveva trasformato lo stato liberale in partito-stato fascista, impiegando anche la violenza) annunciava che il cambio della Lira contro sterlina si sarebbe stabilizzato alla famosa quota 90, e poi quota 60 (quando la sterlina abbandonò la convertibilità in oro). Le imprese esportatrici (ad alta intensità di manodopera) si trovarono fuori mercato. Il settore tessile, esclusi i cotonifici, fu duramente penalizzato, mentre il settore metalmeccanico era talmente composito e vasto da poter sfuggire a questa minaccia (la Fiat aveva differenziato i prezzi per il mercato interno e quello estero).
Le imprese a maggiore intensità di capitale e di maggiori dimensioni (per esempio l'ILVA, siderurgia, Montecatini, chimica, Pirelli, industria della gomma, Burgo, carta e le industrie presenti nel settore navale e degli armamenti) che lavoravano per il mercato interno si trovarono avvantaggiate perché il prezzo delle le materie prime di fatto era diminuito o stabilizzato. Ma per avvantaggiarsi dovevano:
proteggersi dalla concorrenza estera con tariffe doganali, una politica di cartello ed una legislazione consortile con favori fiscali per le fusioni (una sola industria leader che determinava i prezzi);
ridurre i costi totali del lavoro ( tagli salariali del 30%).
Del tutto particolare era l’industria elettrica che avrebbe visto la propria produzione triplicare tra il 1920 e il 1937. Le centrali elettriche potevano contare come materia prima sul carbone o petrolio (importato) o sul carbone bianco (l’energia idroelettrica prodotta dagli invasi d’acqua creati dalle dighe sulle Alpi ed Appennini). I grandi capitalisti italiani erano attratti dall’energia idroelettrica perché nonostante l’elevato investimento iniziale (pay back 25 anni, i frutti sarebbero stati raccolti solo dai figli) presentava i seguenti vantaggi:
Una volta ottenuta la concessione si operava in condizioni di sostanziale monopolio;
il contenuto di importazioni nelle costruzioni di dighe e centrali era piuttosto limitato e ciò costituì un vantaggio nel periodo di svalutazione della lira;
la concorrenza estera era praticamente inesistente;
I titoli delle società elettriche erano particolarmente graditi al pubblico italiano ed era pertanto relativamente facilmente collocabili sul mercato nuove emissioni.
Le maggiori società elettriche, Edison, Sade, Unes ecc.…. ebbero la tendenza a trasformarsi in HOLDINGS di carattere finanziario ed interessate ad espandere la propria influenza nei più diversi settori. I grandi gruppi elettrici italiani in definitiva rappresentano sia il “capitale finanziario” sia la ricerca di un profitto facile, sicuro conquistato più attraverso manovre bancarie che non per mezzo del miglioramento della produttività delle officine.
La Banca Mista
La limitatezza del mercato mobiliare italiano e la tradizionale preferenza dei risparmiatori per i titoli a reddito fisso (buoni del Tesoro garantiti dallo stato) aveva sempre reso difficile alla grande industria del nostro Paese procurarsi mezzi di finanziamento a lungo termine, necessari per i nuovi investimenti in capitale fisso, tramite l’offerta al pubblico di proprie azioni. Alle esigenze finanziarie dell’impresa provvedevano allora le banche con prestiti formalmente a breve termine, ma stipulati con l’accordo che sarebbero stati di volta in volta rinnovati alla loro scadenza.( le Casse di Risparmio si tennero alla larga da questa prassi). Le banche che praticavano questo tipo di finanziamento erano chiamate banca mista, in quanto accanto al credito ordinario operavano anche sul mercato del finanziamento a lungo termine.
Queste banche si trovarono al centro del sistema industriale finanziario italiano attraverso una serie di partecipazioni incrociate. Esse controllavano, finanziavano, gestivano molte industrie ma erano a loro volta controllate direttamente ed indirettamente dai principali azionisti di quelle industrie. Con la “Grande Crisi” la maggior parte delle industrie nonostante la riduzione degli investimenti e dei lavoratori si ritrovò nella impossibilità di ripagare i propri debiti, ma sovente anche nella assoluta necessità di accenderne di nuovi. Le banche miste si trovavano ad avere conti economici squilibrati nei quali, di fronte a disponibilità a vista (depositi), esistevano impieghi di difficile realizzo recupero. Nel 1930, 1931 il Credito Italiano, accortosi che con il perdurare della crisi andava verso il fallimento, per risolvere il problema di liquidità cedeva tutti i propri titoli azionari a due società, la SFI e l’Elettrofinanziaria che sarebbero state gestite con la supervisione della Banca d’Italia e avrebbero dovuto collocare sul mercato i titoli di cui erano venuti in possesso. Invece di azioni, il Credito Italiano si trovò iscritto a bilancio crediti verso queste due società. Inoltre con un credito dello Stato alla SFI di 330 milioni di Lire prontamente giratole la banca risolse anche il problema di liquidità. In questo modo il Credito Italiano, abbastanza vicino al regime, ottenne diversi risultati:
1. di disfarsi dei titoli di poco pregio passandoli alla SFI
2. di accrescere la liquidità della banca con quella che praticamente era una sovvenzione a fondo perduto da parte dello stato
3. di mantenere il controllo del titolo Edison al quale erano particolarmente legati. In cambio di ciò il Credito Italiano si impegnò a limitarsi , da allora in avanti, alle sole operazioni ordinarie di banca.
Giuseppe Toeplitz (1886-1938) Ebreo dell’alta borghesia di origine tedesca. Si trasferì in Italia nel 1890. Nel 1894, con capitali tedeschi, fondò la Banca Commerciale Italiana, di cui fu amministratore delegato fino al 1933. Aprì filiali anche all’estero. Alla vigilia della grande crisi del 1929 la Banca controllava il 20% circa del capitale di tutte le società per azioni italiane. Toeplitz ebbe connivenze con il fascismo anche se osteggiò l’autarchia perché danneggiava le aziende esportatrici. Fu sostituito nel 1933 da Raffaele Mattioli, altro celeberrimo banchiere italiano, che guidò la Banca Commerciale Italiana fino al 1972.[endif]--
La Banca Commerciale Italiana con il suo fondatore ed amministratore unico Giuseppe Toeplitz sottovalutò la crisi e naufragò nell’estate del 1931, con un indebitamento di 3 miliardi di Lire verso la Banca d’Italia. Per evitare il fallimento chiese il salvataggio e dovette cedere tutto il portafoglio industriale alla Sofindit alla quale lo stato concesse un prestito di un miliardo di lire che servì a ridurre il debito di questa verso la banca. E poi fu la volta della Banca di Roma. E nel 1932 tutto peggiorò ed il giochetto fu ripetuto. Ma la situazione non poteva continuare indefinitamente. La Banca d’Italia aveva troppi immobilizzi a rischio e l’industria aveva i un regolare fabbisogno di credito a lungo termine. Mussolini nel gennaio del 1933 affidò ad Alberto Beneduce la creazione di una holding finanziaria di Stato, IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) la quale avrebbe dovuto:
[endif]--a) accollarsi tutte le partecipazioni industriali dell’Istituto di Liquidazioni della Sofindit, della SFI e dell’Elettrofinanziaria;
b) rilevare dalle banche anche tutte le posizioni creditorie a lungo termine che esse avevano ancora in essere con le industrie;
c) provvedere da allora in avanti alla razionalizzazione ed al finanziamento delle industrie di cui aveva assunto il controllo, anche in vista di un eventuale graduale collocamento sul mercato dei loro titoli
d) divenire, per un complesso sistema di incroci azionari, il maggiore azionista delle tre banche miste (Credito Italiano, Banca Commerciale, Banca di Roma)
Alberto Beneduce (1877- 1944) di umile origine, dovette la sua fortuna alle sue competenze tecniche ed al suo opportunismo politico.
Massone e deputato socialista Non si presentò alle elezioni nel 1924. Profondo conoscitore dell’organizzazione dello Stato guadagnò la stima incondizionata di Mussolini ( a cui solo doveva rendere conto) pur non avendo mai preso la tessera fascista. Fu ispiratore e primo presidente dell’IRI. Con l’IRI si formò una “borghesia di stato”, uno stuolo di dirigenti, tecnici, burocrati, al riparo della precarietà del mercato. L’IRI diede un contributo all’Unità della nazione, allo smussamento dei conflitti sociali ed allo sviluppo economico anche se, in molti casi, mancò di spirito innovativo imprenditoriale.
L’IRI
L’IRI si procurò i capitali necessari per la riorganizzazione delle industrie controllate collocando direttamente sul mercato titoli obbligazionari garantiti dallo Stato che erano ben accetti. In questo modo lo stato gestiva direttamente sia molte industrie sia l’intermediazione finanziaria creando una economia mista (pubblica e privata)
L’IRI venne a controllare:
il 100% dell’industria siderurgica bellica, di quella delle costruzioni di artiglieria e di quella di estrazione del carbone;
circa il 90% dei cantieri navali;
oltre l’80% delle società di navigazione;
l’80%della capacità produttiva dei vagoni ferroviari ed il 30% dei locomotori;
oltre il 40%dell’industria siderurgica comune;
circa il 30%della capacità produttiva di energia elettrica;
il 20% dell’industria del rayon ed il 13% di quella del cotone.
Furono istituite delle commissioni per studiare un piano di sviluppo e di razionalizzazione. Le industrie tessili e quanto appetibile dai privati furono vendute, il resto fu gestito direttamente e fu razionalizzata la produzione (a Cornigliano un nuovo stabilimento per la produzione dell’acciaio a ciclo integrale) delle varie società eliminando i doppioni e concentrandosi sulle produzione più redditizie. In questa fase dello sviluppo l’IRI garantiva la sopravvivenza di settori che erano vitali per tutto il sistema produttivo italiano ma poco convenienti per i privati. La nuova fase di sviluppo economico accentuò il passaggio da una forte dinamica delle esportazioni ad un processo di sostituzione dei prodotti esteri con prodotti nazionali (autarchia) favorendo l’espandersi dell’industria pesante, meccanica e chimica. I bassi salari non favorirono l’introduzione di tecniche ad elevato contenuto tecnologico ed ad alta produttività. Il divario nel prodotto per uomo/ora tra l’industria italiana e quella dei più avanzati paesi dell’Europa occidentale venne dunque aumentando nel corso degli anni Trenta.
Per rimettere in moto lo sviluppo si dovette nel dopoguerra fare ricorso ai tradizionali settori produttivi ad elevata intensità di lavoro.
Il PIL dei diversi Paesi tra il 1925 e il 1940
Fine I parte
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