La Turchia di Erdogan non deve trasformarsi nell’Egitto di al Sisi
Ieri sera e questa notte (era il 17 luglio, ndr) abbiamo assistito a un tentativo di colpo di stato in Turchia. Guardando le immagini in televisione, leggendo i siti, in tanti nella notte ce lo siamo chiesti con preoccupazione: come potrà finire un golpe dell’esercito contro Erdogan, ma soprattutto contro il 52% degli elettori che aveva riconfermato l’AKP nelle elezioni dello scorso ottobre...? Era evidente il rischio di guerra civile, e si è affacciato il ricordo di Rabaa square, la piazza del Cairo dove si consumò la repressione dell’esercito contro l’accampamento dei Fratelli musulmani. D’altronde le somiglianze anche a partire dalla matrice ideologica dei due partiti inducevano alla associazione tra le due situazioni.
Poi, sia i cittadini che sono scesi in strada, aiutati dalla capacità di mobilitazione dell’AKP, la polizia che è rimasta fedele al governo, sia la prontissima reazione di Erdogan, hanno evitato che nell’immediato il paese sprofondasse nel caos e in un bagno di sangue.
Gli accadimenti della notte e delle prime ore della mattina hanno sovvertito l’idea che nella regione gli unici governi che garantiscono la stabilità sono le autocrazie militari: la base popolare di consenso di Erdogan ha retto, saldandosi con la forza dell’organizzazione dell’AKP, con i cambiamenti apportati all’esercito e alla polizia, evitando che la storia turca prendesse un altro corso rispetto a quello imboccato con la costituzione del 1982. La democrazia si è mostrata più forte della violenza.
Una vicenda per certi versi speculare a quanto accadde in Egitto nell’estate del 2013. Allora l’esercito, forte del sostegno popolare espresso durante le manifestazioni che portarono in piazza milioni di persone contro il governo di Morsi, prese il potere, interrompendo il fallimentare esperimento di governo della Fratellanza musulmana legittimato dalle elezioni del 2012.
Nelle prime ore del mattino giustamente gli alleati democratici della NATO e dell’Unione Europea hanno condannato il tentativo di colpo di stato e hanno espresso tutto il sostegno alle istituzioni democratiche turche. Erdogan stesso si fa forte della difesa che i cittadini hanno fatto verso queste stesse istituzioni.
La resilienza del governo e la forza popolare della presidenza di Erdogan non devono però far dimenticare che la Turchia era, prima di ieri, e sarà ancora più oggi, un paese profondamente diviso, con una situazione interna di grande instabilità, dovuta non solo agli effetti del conflitto in Siria, ma anche allo stato di guerra nelle regioni curde e alle misure repressive prese dal governo e percepite da parte dell’opposizione non come misure a garanzia della sicurezza collettiva bensì come misure tese a soffocare il dissenso interno.
La democrazia non è solo il governo della maggioranza ma è anche la tutela dell’opposizione. Solo nell’equilibrio tra la capacità di interpretare il sentire della maggioranza, garantendo al tempo stesso il diritto di espressione della minoranza, sta la forza delle democrazie. Altrimenti il rischio di una deriva autoritaria è altissimo.
Erdogan continuerà ad essere forte come questa notte se si impegnerà a tutelare il panorama democratico turco, rafforzando le garanzie perché tutti i cittadini turchi si sentano parte della stessa nazione e ne difendano l’assetto costituzionale. Per proteggere la repubblica turca, sara inevitabile punire chi ha tradito il giuramento di fedeltà all’ordine costituzionale, secondo le leggi vigenti, ma si dovrà anche creare un ampio consenso interno al sistema democratico turco – un consenso che deve essere più ampio di quello che esiste intorno al governo AKP o alla figura di Erdogan. L’esempio egiziano deve essere da monito: le misure repressive messe in piedi da Al-Sisi non stanno rafforzando il consenso al regime, ma lo stanno rendendo più fragile, internamente e nel rapporto con gli alleati, come la vicenda Regeni testimonia.
E l’esempio egiziano deve essere da monito a tutti gli alleati della Turchia che dovranno lavorare per rafforzarne le istituzioni democratiche, e continuare a mantenere un rapporto di dialogo o di dialettica, a seconda dei casi, con Erdogan. L’assenza di questo impegno renderebbe altrimenti la Turchia una ulteriore fonte di instabilità in una regione che ha invece bisogno di ordine per completare il processo epocale di transizione in cui si trova.
Lia Quartapelle @liaquartapelle