Dario Fo, dalla fedeltà a Salò all’ostilità per l’Occidente
Sarebbe forse un errore attribuire a Dario Fo – come fanno molti antipatizzanti – una volatilità ideologica, per le militanze dall’estrema destra all’estrema sinistra, fino ai cinque stelle. Ma a guardare bene, la vita politica del Nobel ha seguito una linea di coerenza espressa attraverso un ribellismo giovanile simile a quello adulto e senile: il giuramento di fedeltà al manifesto di Verona, fondativo della Repubblica di Salò, contemplava la lotta per l’«abolizione del sistema capitalistico interno e contro le plutocrazie mondiali» che tanto assomiglia alla dichiarazione d’intenti del Soccorso Rosso, la struttura degli Anni Settanta che si riprometteva di «sostenere compagni incarcerati nel corso delle lotte antifasciste ed antimperialiste a livello nazionale ed internazionale». Il linguaggio è soltanto leggermente diverso, da «plutocrazie» si passa a «imperialismo», ma è comunque una dichiarazione di guerra alla società occidentale, o almeno a quella maggioritaria, capitalista e liberale, che si è opposta prima al nazifascismo poi al comunismo vincendo entrambe le sfide. Ora, va specificato che Fo ha sempre ridimensionato la sua partecipazione da volontario al fascismo della bella morte di Salò, prima dichiarandosi una quinta colonna della Resistenza, poi uno che cercava di «salvarsi la pelle», e sarebbe comunque ingiusto attribuire valore storico alle sentenze di tribunale che autorizzano a definirlo «rastrellatore». Ma, insomma, una linea fra quelle due fasi della vita, disconosciuta la prima e rivendicata la seconda, è abbastanza visibile e anche dolorosa. La Repubblica sociale era nata, fra l’altro, qualificando stranieri «gli appartenenti alla razza ebraica» e «appartenenti a una nazionalità nemica». In uno spettacolo teatrale del 1972, al feddayn (che dava nome all’opera) si consegnava la dimensione di «nemico numero uno dell’imperialismo, del sionismo e della reazione araba». Anni dopo, rifacendosi a un testo di Nelson Mandela, Fo ha paragonato la situazione dei palestinesi a quella dell’apartheid sudafricano e, ancora di recente, in un’intervista per i suoi novant’anni, ha sostenuto che gli ebrei si avvalgono della «loro brutalità contro chi segue altre religioni». Sono frasi per cui Fo si è guadagnato esorbitanti accuse di antisemitismo, almeno per il Fo post-Salò, ma l’antisionismo, quello sì, era orgogliosamente rivendicato. Ed era parte fondante dell’antimperialismo che lo ha condotto ad analizzare l’11 Settembre prima come una reazione dei poveri sui ricchi («questa violenza è figlia legittima della cultura della violenza, della fame e dello sfruttamento disumano»), poi a fare da voce narrante di un documentario cospirazionista scritto da Giulietto Chiesa, e secondo il quale gli attentati del Wto e del Pentagono erano strumento di un grande complotto a sfondo petrolifero. Proprio come succede sempre, disse Fo, «fin dall’omicidio Kennedy». Per un intellettuale di tale formazione era naturale finire dalle parti di Beppe Grillo. Alla lunga il sugo è sempre quello: la realtà offerta è una realtà contraffatta: il mondo occidentale è basato sullo sfruttamento di pochi forti su molti deboli, e con la collaborazione della menzogna. Del resto sono sentimenti ai quali è in parte ispirata la terribile lettera del 1971 all’Espresso – firmata da Fo e da parecchi altri – nella quale si giudicava il commissario Luigi Calabresi colpevole della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, e nella quale si proclamava una ricusazione di coscienza «rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni». Era soltanto una grande recita a cura di istituzioni statali a cui non era più riconosciuta cittadinanza. Soprattutto al commissario Calabresi, che in quel coro furente era indicato come agente della Cia, e cioè avanguardia degli oppressori, gli imperialisti, gli oscuri nemici di sempre.
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