Nucleare sudcoreano e referendum turco
Il nucleare nordcoreano e il referendum turco
Il sette aprile gli Stati Uniti hanno lanciato 59 missili contro postazioni militari governative siriane. Trump lo ha motivato in seguito all’attacco chimico di Assad (comunque da sempre negato dallo stesso Presidente siriano) contro forze di “opposizione” al governo nei pressi di Idlib, nord-ovest della Siria.
E’ una mossa squisitamente politica visto che militarmente parlando è un’azione molto limitata. La situazione sul fronte siriano può essere modificata solo con un intervento terrestre non con bombardamenti aereo-navali. Tuttavia tornando alla dimensione politica si tratta di un’azione importante per Washington: dopo il disimpegno obamiano Trump cerca di accreditarsi come “gendarme globale”, in questo caso ignorando anche l’Onu (considerando la protezione russa in questo consesso ad Assad).
Da parte del clan alauita governativo non vi è stata nessuna risposta dello stesso tenore militare. Identica cosa vale per l’alleato russo. Mosca si è limitata ad una protesta diplomatico-politica, segno evidente di una inconsistenza russa nell’arena mediorientale (già evidenziatasi con l’abbattimento del jet russo da parte di forze turche). Quindi gli Stati Uniti, almeno nel breve termine, possono ancora avere una certa rilevanza sugli accadimenti siriani. Cosa tuttavia impraticabile sul lungo periodo senza interventi terrestri.
Sull’onda di tale vittoria politica, Trump ha ricercato un’analoga influenza anche nella penisola coreana. Qui vi è il regime nordcoreano come potenza nucleare non riconosciuta dalle maggiori potenze. Le reali capacità nucleari di Pyongyang sono molto dibattute ma l’unica cosa certa è il rischio che Kim-Jong le possieda realmente. Di fronte a tale evenienza ovviamente per il “gendarme globale” la situazione si fa molto più complessa; soprattutto considerando che il regime nord-coreano usa il proprio apparato militare, convenzionale e non, solo a scopi difensivi e provocatori. In questo caso per gli alleati di Washington nella regione (Corea del sud e Giappone) il pericolo è più teorico che pratico, visto che sinora Pyongyang non ha concretamente compiuto atti ostili verso Seoul e Tokyo.
Partendo da questi presupposti i margini per gli Stati Uniti si fanno ristretti: un attacco a Kim-Jong, con quest’ultimo non materialmente ostile e con la possibilità che abbia missili nucleari, non sarebbe proporzionato ai rischi connessi. Indubbiamente i legami della Corea del Nord con la Cina sono molto importanti ma ciò non mette al sicuro il regime nord-coreano da un possibile attacco americano (sia terrestre che aereo-navale). Da questa prospettiva è più efficace il deterrente nucleare.
Kim-Jong (nonostante una certa retorica occidentale lo dipinga come dissennato, probabilmente poiché poco avvezza alle classiche dinamiche di politica internazionale) è riuscito a mostrarsi autonomo anche verso Pechino e allo stesso tempo molto razionale nonostante le provocazioni di Trump (invio di un certo numero di unità navali nel Mar del Giappone). Tuttavia è anche logico pensare che la Cina mantenga con l’alleato nord-coreano un approccio a “briglie sciolte”, ritenendolo il male minore di fronte all’ingombrante presenza americana nella regione.
Il 16 aprile Erdogan vince il referendum con il 51%. In questo modo la Turchia diventa un paese maggiormente accentrato e con una connotazione islamica (non dissimile dal passato ottomano): maggiori poteri al Presidente della repubblica a scapito del Parlamento. Insomma il potere di Erdogan in patria aumenta considerevolmente. In proposito è da segnalare l’intervento dell’Ocse: “ Violati gli standard internazionali, limiti a libertà fondamentali”. Ma in un mondo ove la maggior potenza militare (Stati Uniti) ignora ciclicamente l’Onu, i diversi organismi sovranazionali sono sostanzialmente irrilevanti.
Ai primi di maggio Erdogan si è incontrato con Putin a Sochi in merito alla Siria. I due leader si sono accordati su “zone a tensione ridotta” per il paese, sottoposte e accettate anche dall’Iran. In questo caso Erdogan, dopo la passività su Aleppo, recupera posizioni nel nord siriano. Tuttavia la stessa Aleppo rimane in mano agli Alauiti di Assad ed è difficile ipotizzare che Putin possa scaricare il leader alauita. Quindi per il Presidente turco i margini di manovra sono quasi azzerati. Il vero vincitore, per il momento, è il Presidente Putin. Esso, di fronte ad una sua debolezza militare nell’area, riesce comunque a rappresentare un soggetto politico di rilievo nella questione siriana. D’altronde ciò è il vero obiettivo di Mosca: mantenere un equilibrio fra Ankara e Teheran per avere margini di manovra.