L’impegno dell’Italia nella prevenzione delle crisi in Africa
Dobbiamo operare attraverso gli strumenti della mediazione, dell’aiuto umanitario, della cooperazione allo sviluppo e del contrasto al cambiamento climatico. Con l’effetto collaterale positivo di neutralizzare chi strumentalizza cinicamente il dibattito sulle migrazioni.
La crisi delle migrazioni è un campanello d’allarme che ha reso evidente che l’Africa è la profondità strategica della politica estera italiana. L’Italia ha saputo reagire. Mai come in questi anni, la nostra politica estera ha guardato all’Africa come orizzonte imprescindibile del nostro interesse nazionale. Mai come in questi anni, l’Italia si è resa protagonista di un attento e costante dialogo con i paesi africani, per affrontare insieme le grandi sfide globali, che vanno dal contrasto al traffico di esseri umani, al cambiamento climatico, dai conflitti e il terrorismo, alla povertà.
Quello che invece dobbiamo evitare è che la crisi dei migranti assorba tutte le energie, trascinandoci in un dibattito quotidiano vizioso che, soprattutto in questi giorni alla soglia dell’estate, offuschi la nostra capacità di prevenire le crisi e di intervenire sulle radici strutturali delle migrazioni. Il surreale dibattito sulle ONG definite furbescamente «taxi del mare» dal vicepresidente della Camera dei Deputati Luigi Di Maio e da altri esponenti politici di destra, è un caso emblematico in questo senso. Sono parole vigorose quanto vuote. Pronunciate da chi è confuso e con l’unico intento di generare confusione.
Ciò che Di Maio non dice, infatti, è che proprio in queste settimane, mentre con il mare calmo aumentano gli sbarchi, nel Corno d’Africa si stanno consumando due crisi parallele, epocali, e altrettanto ignorate dai media e dalla politica. Da un lato, il più giovane Stato del continente africano, il Sud-Sudan sprofonda in un conflitto armato sempre più aspro tra il presidente Salva Kiir e l’ex vicepresidente Reik Machar. Una diatriba che sta assumendo sempre di più i connotati di un conflitto etnico tra Dinka e Nuer. Neanche l’indipendenza dal Sudan, dopo 57 anni di guerra civile tra nord e sud, ha portato requie in Sud-Sudan. La guerra civile iniziata nel 2013 ha prodotto infatti quattro milioni di sfollati e di rifugiati nei paesi vicini. Ora sta mettendo a rischio la sicurezza alimentare di cinque milioni di persone, proseguendo nella paralisi della mediazione internazionale, ormai incapace persino di fornire aiuti umanitari, poiché sempre più spesso usati come armi nel conflitto. Forse solo l’annunciata visita di Papa Francesco potrà attirare un po’ di interesse su un conflitto altrimenti ritenuto ormai irrisolvibile. Ma non è tutto. Al contempo, nel Corno d’Africa l’ondata ricorrente di siccità che interessa ogni 5-7 anni la regione sta generando la peggiore carestia degli ultimi 60 anni e colpisce oggi 10 milioni di persone. Nel 2011, la precedente carestia uccise 250mila persone. L’appello delle Nazioni Unite per sfamare questa massa di persone è stato finanziato soltanto per un decimo di quanto necessario (423 milioni di dollari, a fronte dei 4,4 miliardi richiesti dal segretario generale dell’ONU Antonio Guterres).
Sono queste delle crisi che non resteranno confinate nei paesi dove hanno avuto origine e che rappresentano dei «push factor» per le migrazioni certamente molto più incisivi di quanto non possano essere le barche delle ONG nel Golfo di Sicilia. Si tratta di un’evidenza alla quale dovrebbero arrendersi anche coloro che accusano, in malafede, le organizzazioni e i volontari che salvano migliaia di persone in mare. E che magari farebbero meglio a riservare le loro energie politiche alla ricerca e alla promozione di soluzioni sui problemi reali e strutturali che causano gli esodi.
Energie come quelle che stanno animando la «G20 African Partnership Initiative», promossa a Berlino dalla presidenza tedesca del G20 e che abbiamo già registrato nell’inedita sessione allargata del G7 di Taormina, quando il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha accolto i leader di Tunisia, Niger, Nigeria, Kenya ed Etiopia, per discutere i temi delle migrazioni insieme al gruppo dei sette e con i rappresentanti di Unione africana, Banca africana per lo sviluppo, OCSE e Banca mondiale. E’ con questi attori che dobbiamo compiere i prossimi passi di un lungo percorso volto a costruire azioni efficaci di prevenzione delle crisi attraverso gli strumenti della mediazione, dell’aiuto umanitario, della cooperazione allo sviluppo e del contrasto al cambiamento climatico. Con l’effetto collaterale positivo di neutralizzare chi strumentalizza cinicamente il dibattito sulle migrazioni.