I compensi scandalosi dei conduttori e volti Rai
Sappiamo tutti che sono i valori che creano le norme e non le norme che creano i valori, ma in Italia tutto è anomalo nel campo dell’informazione. Il concetto di giornalismo come servizio per i cittadini – qualunque sia la proprietà della testata, pubblica o privata – è scarsamente diffuso. Troppi giornalisti si sentono non testimoni della realtà ma protagonisti; non cronisti ma persuasori; non osservatori dei fatti ma facitori di fatti. Il sistema televisivo è viziato, forse irrimediabilmente, sia per gli assetti proprietari dell’emittenza privata, sia per l’annosa sudditanza politica dell’emittenza pubblica. Tutto è così anomalo che non si è mai fatto troppo scandalo (parliamo dell’opinione pubblica in genere) che le reti private siano proprietà di un soggetto politico e uno solo; ed è così anomalo che si è vista la lottizzazione politica del Servizio pubblico come una garanzia di pluralismo. In questa così atipica situazione italiana diventa allora addirittura accettabile che l’imparzialità e il pluralismo dell’informazione politica in televisione vengano ricercati per via burocratica attraverso una serie di norme e di codici.
Per chi lavora seriamente nel campo dell’informazione non c’è cosa più fastidiosa che parlare di codici. Ma come accettiamo l’esistenza di un codice penale perché c’è chi commette reati (e spesso chiediamo un codice più severo e una giustizia più efficiente), così è forse necessario accettare un codice di disciplina o di comportamento che – a conforto o a sostegno della coscienza professionale di chi sovrintende all’informazione politica in televisione o a remora per chi quella coscienza dimostra di non avere – non si limiti a nobili raccomandazioni, ma stabilisca regole precise e pragmatiche. Una norma è sicuramente difficile per i telegiornali, cui però si dovrebbe almeno ricordare che il loro compito è di dare notizie, cioè di informare, non di fare propaganda. Più facile è invece la norma per i talkshow: un codice di regole che riguardino le domande e il tipo delle domande, gli inserti e le interviste in collegamento; la scenografia, i movimenti delle macchine da presa, il pubblico e il suo comportamento; ma soprattutto che garantiscano un modo di contraddittorio (ma quale? dal conduttore coscienzioso e coraggioso? da un invitato non stupido e bene informato?), in maniera che la mezza verità o la menzogna non venga omologata come verità dalla forza potente dell’immagine. (31)
Insieme a tante anomalie c’è però anche un’anomalia di fondo, quella che Jader Jacobelli ha spiritosamente chiamato la “transessualità” della Rai: metà pubblica, con il canone, e quasi metà privata, con la pubblicità. Canone e pubblicità – ricorda Jacobelli – hanno due logiche contrastanti: il canone consente di impegnarsi sul fronte della qualità; la pubblicità spinge a ricercare l’audience; ed è anche questa logica contrastante che impedisce al Servizio pubblico di perseguire con coerenza i propri fini istituzionali. (32)
Se continuerà a mancare una volontà politica che tagli il male alla radice, possiamo forse trarre qualche speranza dal progresso tecnologico. E’ probabile infatti che la moltiplicazione dei canali televisivi resa possibile dal passaggio al digitale e il presumibile ampliamento delle pay-tve dei servizi a pagamento (quindi anche della tv “spazzatura”) riproporranno – a furor di popolo, speriamo – l’indispensabilità di un Servizio pubblico che sia non servizio di stato o di governo ma un servizio per i cittadini; cioè un servizio di qualità e di imparzialità. Un’informazione di qualità non può non essere un’informazione imparziale; non può non essere un’informazione che sia solo informazione.(33)
C’è poi qualcos’altro che ci fa bene sperare, per lo meno nel campo dell’informazione politica. La televisione è quel medium terribile che l’esperienza ci ha dimostrato, ma la stessa esperienza ci dice anche che la sovraesposizione delle immagini, l’overdose di facce (le solite facce) e di parole (le solite parole) possono produrre prima indifferenza, poi noia, poi rigetto. Le elezioni europee dello scorso giugno hanno dato un segnale importante in questo senso e le elezioni amministrative o alcune di esse ci hanno riportato la speranza in una politica intesa come dialogo con i cittadini e come risposta ai loro bisogni, con la televisione che racconta fatti e progetti ma non li inventa.
In un’indagine fatta su queste elezioni e presentata il 1° luglio scorso il Censis parla di crisi del leaderismo carismatico: “Il 51.5 per cento degli elettori ha votato per il partito più vicino ai propri ideali; il 14.8 per cento per quello con programmi più convincenti; il 12.3 ha votato i candidati della propria circoscrizione; l’11.5 ha scelto il partito di cui ha apprezzato il comportamento negli ultimi anni; soltanto il 9.9 per cento ha votato il partito con il leader nazionale più convincente”. E’ cominciata allora anche la crisi della politica-spettacolo? “Le elezioni europee” dice il Censis “hanno fatto emergere alcune tendenze che vanno lentamente consolidandosi nella società italiana e che, con tutta probabilità, condizioneranno in modo crescente anche l’evoluzione sociopolitica nel prossimo futuro”. (34)
http://m.dagospia.com/la-stampa-scodella-i-compensi-scandalosi-di-conduttori-volti-tv-e-giornalisti-141053
Anomalia Italiana di Sergio Lepri ( estratto da http://www.sergiolepri.it/la-televisione-e-la-comunicazione-politica-in-italia/