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Venezuela: un'altra utopia fallita... a 25 anni dal golpe di Chavez

Un murales in un parcheggio di Caracas...

Come può il Venezuela avere il salario minimo più basso di tutta l’America latina, introdurre una tessera per razionare gli acquisti di beni alimentari a causa della scarsità dei prodotti e, al contempo, registrare l’inflazione più alta al mondo...?

Difficile dare una risposta visto che il Paese ha riserve per 300 miliardi di barili – certificate nel 2012 da British Petroleum, tanto per capirci più dell’Arabia Saudita – e con una popolazione di 30 milioni di abitanti e un prezzo al barile medio di 50 dollari, significa che oggi ogni venezuelano possiede alla nascita una ricchezza pari a diecimila barili di petrolio che, tradotto in cifre, fa mezzo milione di dollari a cranio...

Riuscire ad essere poveri, disperati e continuamente in fila con queste premesse (che non includono neppure il gas naturale – di cui Caracas possiede riserve certificate per 5,5 bilioni di metri cubi – né le miniere di oro e diamanti) significa che, come minimo, chi ha gestito il paese negli ultimi due decenni – ovvero il chavismo – lo ha fatto in modo criminale, perché, in realtà, tutte le famiglie venezuelane dovrebbero essere milionarie per il semplice fatto di… essere venezuelane.

Purtroppo tra le tante follie commesse prima da Hugo Chávez – militare ex golpista (nel 1992) che a sua volta soffrì il golpe più breve della storia dell’umanità (48 ore nel 2002) – e poi dal suo delfino Nicolás Maduro non c’è solo il cambiamento del nome dello stato in República bolivariana de Venezuela, in omaggio al padre della “Patria Grande” sudamericana Simón Bolívar.

Se i chavisti si fossero limitati a questo oggi non assisteremmo a saccheggi quotidiani ai negozi per rubare un kilo di carne, ad omicidi in serie che hanno trasformato negli ultimi anni Caracas nella città più violenta al mondo e, ogni giorno, ai soprusi del SEBIN, la Securitate del regime, con decine di prigionieri politici finiti in carcere solo perché non troppo d’accordo con il modello socialista del XXIesimo propugnato da Chávez e Maduro.

No, le follie chaviste che hanno portato oggi al disastro il Venezuela sono ben maggiori ed hanno origine da lontano, dal 2003 a voler essere pignoli, quando fu ordinato un cambio fisso tra il bolivar, la moneta nazionale che oggi non vale più nulla, ed il dollaro.

L’obiettivo era in teoria, sulla carta, nobile – evitare la fuga di capitali – ma il risultato oggi è sotto gli occhi di tutti, nonostante un decreto del regime che da un decennio impone la galera ai giornalisti che parlano in tv o scrivono sui giornali le quotazioni del cambio nero: sempre meno dollari sul mercato, la nascita di un mercato parallelo e prospero del cambio e l’esaurimento delle riserve in monete forti della BCV, la Banca centrale venezuelana, costretta a vendere il suo oro per evitare un default dalle proporzioni bibliche.

La seconda follia fu quella delle nazionalizzazioni indiscriminate. Come quella di SIDOR (Siderúrgica de Orinoco, ndt), che oggi produce il 15% rispetto a prima, quando era privata.

Chi non ricorda del resto un Chávez che sorridendo ordinava in diretta tv “expropriense!” a Caracas o il corpo scheletrico del contadino Franklin Brito, che morì dopo quattro mesi di sciopero della fame nel 2010, per rivendicare la terra che lui coltivava e faceva produrre, sia detto per gli smemorati, che nel 2005 gli era stata rubata/espropriata, dal regime (ogni parallelismo con Cuba ci sta...)?

Poi, nel 2008, ci fu la follia del controllo degli importi a cui vendere carne, latte, zucchero e tutti gli altri beni di prima necessità, con centinaia di commercianti – colpevoli di vendere cibo, bevande e persino carta igienica e giocattoli non ai “prezzi giusti” fissati dal governo – finiti in gattabuia.

L’obiettivo dichiarato dal chavismo anche qui era meritorio: sconfiggere gli aumenti dei prezzi ma – al pari di tutti gli altri esempi simili nella storia dell’economia, a cominciare dall’ex Urss ed arrivando sino a Cuba – la conseguenza è stata una scarsità mai vista prima di quasi tutti i prodotti, enormi file nei negozi e, ça va sans dire con il cambio fisso sul dollaro, la nascita di un mercato nero fiorente ed un’inflazione record che nel 2017 sarà di almeno il 1700% secondo il FMI.

Non ci si deve stupire dunque se – dopo avere delegato al generale di Brigata Jorge Pérez Mansilla la distribuzione dell’olio ed al generale José Inés Gonzàlez Pérez quella del riso, dopo avere conferito al contrammiraglio Angel Rueda Pinto il controllo sul pollame ed avere adibito il generale di brigata Vera Boada alla supervisione sulla carta igienica – adesso Maduro abbia dato ordine di togliere dalla circolazione i biglietti da 100 bolivares (quelli da 50 però no, chissà perché) per combattere un “complotto economico ordito dagli Stati Uniti” e da sedicenti “mafie” che, solo con questo taglio farebbero, a suo dire, affari d’oro alla frontiera con Colombia e Brasile.

E se sino al prossimo 20 gennaio il confine con questi due Paesi è stato chiuso – ma sul fronte colombiano una marea di venezuelani affamati forza sovente il blocco della polizia riuscendo a fare spesa nella città colombiana di Cucuta – c’è una domanda che si fanno tutti: sino a quando resisterà il popolo venezuelano di fronte alle follie economiche del suo regime?

Già perché, con un’inflazione mensile che solo lo scorso novembre ha superato il 200% e senza dollari in tasca da cambiare sul mercato nero, oramai è diventato un supplizio anche solo sopravvivere in Venezuela e, emigrazione a parte – oramai in Florida i venezuelani competono con i cubani in quanto a numero –, la sola prospettiva di un qualche miglioramento è quella di cambiare il modello economico socialista, imposto da Chávez ed oggi difeso da Maduro, dimostratosi a tutti gli effetti fallimentare o, come dicono sempre più venezuelani, una follia.


Un bilancio a 25 anni dal golpe di Chavez

Era il 4 febbraio del 1992 quando un gruppo di militari tentò un colpo di Stato contro il presidente del Venezuela dell’epoca, Carlos Andrés Pérez. A guidarli l’allora giovane tenente colonnello dei paracadutisti Hugo Rafael Chávez Frías. Il golpe non riuscì. “Compagni, purtroppo i nostri obiettivi non sono andati a buon fine nella capitale. Per adesso”. Fu quel “Por ahora” – in italiano “per adesso” – che doveva far capire che il fenomeno Chávez era appena agli inizi.

Un golpista qualsiasi pensarono alcuni, un militare populista alla Aldo Rico che aveva tentato un golpe fallito in Argentina, nel 1987, dal momento che uno dei primi ideologi cui s’ispirò quello che oggi è ricordato da gran parte della sinistra mondiale come un eroe, fu Norberto Ceresole. Fu questo “filosofo” fortemente antisemita ad inculcare per primo nella testa del giovane Chávez la sua deleteria tesi “caudillo, esercito, popolo”, che ancora oggi regge il precario equilibrio sociale in Venezuela.


Nessuno prestò attenzione alle lunghe chiacchierate tra Ceresole e Chávez alla vigilia del colpo di Stato del 1992, tanto meno il presidente Rafael Caldera che poi concesse l’amnistia a tutti i golpisti, e nessuno soprattutto pensò che il Movimento V Repubblica diretto da quel tenente colonnello dei parà si sarebbe trasformato rapidamente in quello che da tempo è in Argentina il peronismo ed a Cuba il castrismo, ovvero in qualcosa destinato a durare per molto tempo.

Avendo come unica avversaria di peso un’ex Miss Venezuela (Irene Sàez) – grazie al crollo del corrotto bipolarismo politico che nei 40 anni precedenti aveva garantito il potere a due soli partiti (Copei e AD) – Chávez stravinse le presidenziali del 1998 con un programma che prometteva di ridurre le enormi differenze sociali tra i ricchi e chi viveva nei ranchitos, come chiamano le baraccopoli in Venezuela.

Chávez portava la cravatta in quella sua prima campagna elettorale vittoriosa e s’atteggiava a moderato ma, non appena entrato nel palazzo presidenziale di Miraflores, le cose erano destinate a cambiare in pochi mesi, in modo radicale.

Reindossata la divisa militare, Chávez impose fin da subito il suo modello politico ribattezzato oggi chavismo, un socialismo sui generis, a metà tra mito e realtà, con trasmissioni fiume alla tv venezuelana dove faceva a pezzi i personaggi chiave della sua politica contemporanea. “Sei un asino Mister Bush!”, disse a reti unificate una volta, attaccando il vertice di quell’Impero Usa che, nonostante tutte le polemiche, non ha però mai smesso di comprare petrolio dal Venezuela.

Il popolo minuto, che non era mai stato prima considerato dai politici tradizionali del Venezuela, aveva trovato il suo idolo e poteva finalmente sognare con un presidente che parlava come lui, costruiva case popolari per lui, toglieva ai ricchi (ma solo a quelli che non l’appoggiavano ça va sans dire) per dare ai poveri.

“Io ho lavorato per 30 anni ma per ricevere la pensione è dovuto arrivare El Comandante a Miraflores”, mi spiegava Garcia Rodríguez, 70enne, mentre sporgendosi dalla scala della sua umile casa mi offriva un caffè nell’ottobre del 2012, l’ultima elezione vincente di Chávez, già gravemente ammalato.

Inutile negare il gran bacino di voti che sin dall’inizio ha avuto il chavismo tra la popolazione più povera del Venezuela, cui si è unita l’intellighenzia di molti intellettuali di sinistra, così come insensato il non ammettere le follie economiche introdotte da El Comandante che, man mano passavano gli anni, s’avvicinava sempre più al modello – fallimentare per economia e libertà d’espressione – del comunismo.


Dal cambio fisso che ha sbriciolato il valore della moneta nazionale alle nazionalizzazioni, dall’inflazione più alta al mondo alla militarizzazione dell’esecutivo. Ma anche gli attacchi alle libertà fondamentali, con il carcere politico per gli oppositori e la chiusura forzata di televisioni e giornali non allineati al pensiero della “rivoluzione bolivariana”. Sono molte le responsabilità delle azioni di Chávez che oggi sconta, sulla sua pelle, il popolo venezuelano.

A 25 anni dal suo esordio sul panorama mondiale con un colpo di Stato fallito festeggiato in pompa magna dal regime di Caracas, Chávez è ormai morto ma sopravvive, seppur in modo caricaturale, nella demagogia del suo successore, Nicolas Maduro, ed il Venezuela porta sulle spalle il peso di questa eredità.

Oggi il Paese considerato un tempo l’Arabia Saudita dell’America latina grazie alle maggiori riserve di petrolio al mondo è sempre più simile ad un corpo in agonia. Mancano i viveri, i beni primari, le medicine, perfino la distribuzione della carta igienica è stata delegata ai militari, di fatto i veri padroni del Paese, mentre la corruzione della boliburguesía – ovvero i funzionari del regime diventati ricchi grazie ad operazioni “da galera” e al narcotraffico gestito direttamente da apparati dello Stato – ha fatto perdere gran parte dell’appeal del chavismo tra gli strati più poveri del pueblo.

Le principali aziende straniere sono fuggite, la mortalità infantile è esplosa, la violenza è decuplicata, il Paese è al collasso e l’ultima notizia che arriva dal Venezuela è l’allarme lanciato da alcuni biologi, preoccupati dal fatto che in molti sono arrivati ad uccidere persino fenicotteri rosa e formichieri giganti – razze protette – per sfamarsi...



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