La rivoluzione tecnologica in atto: chi governa davvero il futuro?
La rivoluzione tecnologica in atto pone molti interrogativi sui cambiamenti che ne deriveranno e quindi sul futuro dei prossimi trent’anni circa. Due di questi interrogativi, nel dibattito pubblico e scientifico, sono molto ricorrenti. Il primo riguarda l’impatto di questa rivoluzione sul mondo del lavoro e dunque la sua capacità di distruggere o creare posti di lavoro. Il secondo riguarda il ruolo dei giganti digitali americani come Amazon, Google e Facebook rispetto ad essa: se ne “pilotano” lo sviluppo o si limitano a raccogliere i frutti che genera.
Andando con ordine, con riferimento al primo interrogativo, la rivoluzione tecnologica è certamente, “disruptive” ma, contro le previsioni apocalittiche della nuova corrente luddista, soprattutto “constructive”.
“Disruptive” perché in conseguenza di essa scompariranno i lavori manuali e ripetitivi e quelli con le tre D: dull, dirty and dangerous (noiosi, sporchi e pericolosi) che cadranno sotto la scure della robotizzazione. Lo annuncia, tra gli altri, il rapporto «The risk of automation for jobs in OECD countries» del 2016 mentre il rapporto di Forrester Research conta in 22,7 milioni i posti di lavoro interessati, ovvero il 16% del totale, negli Stati Uniti. Segno di questa tendenza è l’automazione dei processi produttivi messa in atto di recente da Foxconn, la principale industria di smartphone con sede in Cina.
Il cambiamento in atto è però soprattutto “constructive” perché, nonostante queste perdite, la rivoluzione tecnologica è capace di sviluppare lavoro almeno in tre settori del mercato e, da un altro punto di vista, nei territori deindustrializzati.
Il primo settore è quello dei lavori legati allo sviluppo delle nuove tecnologie. Ad esempio, l’Aviazione Americana stima che per mantenere in volo un drone automatico per ventiquattro ore, si renderanno necessarie 168 persone mentre, per un drone di dimensioni maggiori, come il drone spia Glabal Hawk, circa 300. Sulla stessa linea, il rapporto US Bureau of Labor Statitics secondo cui aumenterà la richiesta di: “computer support specialist, electrical specialists, electrical technicians, industrial engineering technicians, cardiovascular technicians, respiratory therapists, HVAC, Telecommunications installers” e infine di “environmental science technicians”. Per quanto riguarda il nostro Paese, la recente indagine di Assolombarda su Industry 4.0 stima che il fenomeno può determinare un aumento di posti di lavoro nel settore manifatturiero di circa il 10% (da 25 milioni a circa 27 milioni), quale saldo tra la distruzione di circa 8 milioni di posti di lavoro tradizionali e la creazione di circa 10 milioni legati alla rivoluzione tecnologica.
Tuttavia, in questa prospettiva, i lavoratori sono chiamati ad acquisire nuove competenze: tra queste, il pensiero computazionale, la capacità di modellazione, le abilità logico-matematiche, la capacità di lavorare in team, il project management, la capacità di progettare un’infrastruttura data center, di realizzare applicazioni per l’intelligenza artificiale, di identificare e configurare le modalità di connessione di sensori, device embedded e device intelligenti.
Il secondo settore è quello dei lavori c.d. “white” ovvero legati alla cura mentale e fisica della persona in conseguenza della riduzione dei tempi di lavoro e quindi dell’aumento del tempo libero, ovvero di quello a disposizione per il proprio benessere. In questo quadro fa eccezione solamente il Giappone, che ha deciso di affidare anche la cura degli anziani alle macchine stanziando già dal 2013 fondi per 24,6 milioni di dollari in favore delle aziende che costruiscono robot da impiegare nell’assistenza. Il 25% della popolazione nipponica ha già oggi più di sessantacinque anni e aumenterà di circa 7 milioni entro il 2025.
Il terzo settore è quello dei big data, che è stato interessato dal business, sino a ieri sconosciuto, dell’analisi delle informazioni depositate in rete.
Quanto, infine, ai territori deindustrializzati, la rivoluzione tecnologica ribalta il paradigma per cui l’occupazione è conseguenza dell’insediamento produttivo in una determinata area geografica.
Grazie, infatti, alla possibilità di ottenere commesse di lavoro mediante la piattaforma digitale che intermedia con l’impresa “committente”, un lavoratore potrà svolgere alcune tipologie di lavoro dalla parte del mondo opposta a quella in cui si trova questa impresa e quindi anche dai territori deindustrializzati. Come quelli del Sud del pianeta.
Questo accade nel crowd work, come evidenzia Francesco Occhetta SJ (Il lavoro promesso. Libero, creativo, partecipato e solidale, Ancora, 2017). Il crowd work è una forma di lavoro che ha registrato negli ultimi anni una crescita esponenziale. Secondo alcune stime (Huws 2016), nel 2020, in America almeno l’11 % dei lavoratori lo sperimenterà mentre il rapporto della Banca Mondiale, intitolato The Global Opportunity in Online Outsourcing, stima un fatturato da esso derivante di 25 miliardi di dollari nel 2020. Nel 2015, il numero di piattaforme digitali di crowdsourcing nel mondo ha raggiunto le 2.300 unità, solo in Germania se ne annoverano 65 (cfr. Leimeister, 2015). Tra queste, le più famose sono le americane Amazon Mechanical Turk (AMT), Top Coder e Upwork, l’australiana Freelancer.com, la tedesca Twago.
Passando al secondo interrogativo, sui giganti digitali americani, la risposta può sintetizzarsi in poche battute. Le aziende oggi dominanti nel settore, con posizioni decisamente oligopolistiche, raccolgono i frutti della rivoluzione tecnologica, ma non riescono a pilotarne lo sviluppo per l’estrema velocità con cui essa avanza. Per usare una metafora, “surfano” sulla sua onda.
Qualche esempio renderà chiara l’idea, con riferimento ad Amazon, Google e Facebook. Andando con ordine, Amazon non è artefice della tecnologia dei droni ma, grazie ad essi, sarà presto in grado di recapitare direttamente presso l’abitazione dei consumatori i prodotti richiesti. E quindi di incrementare il proprio business. Google non realizza piattaforme di crowdsourcing ma appartiene al novero delle aziende che più ricorrono al crowd work per commissionare lavori di natura tecnica e informatica. E dunque recluta lavoratori, soprattutto giovani, situati nelle più disparate aree del mondo con le particolari skill richieste per ciascun lavoro commissionato. Facebook non ha creato i big data, che sono nati con internet, ma è diventata una miniera di informazioni per le campagne di marketing di molte aziende che esplorano le tendenze dei consumatori attraverso le pagine degli iscritti. Facebook è inoltre uno strumento di social recruitment per le imprese che selezionano i candidati per posizioni aperte al loro interno alla luce dei dati pubblicati sui rispettivi profili e, in alcuni casi, uno strumento di employer branding per le aziende che si promuovono in rete rispetto a potenziali dipendenti.
Se tutto questo è vero, è vero allora che la rivoluzione tecnologica ci pone dinanzi a sfide che richiedono all’uomo la capacità di coglierle per migliorare la propria condizione. Si tratta di ricercare interazioni virtuose tra essa e l’uomo, ovvero di creare i presupposti per la sua governance.
In fondo, come sostengono Brynjolfsson e McAfee in un notissimo studio sul tema (La nuova rivoluzione delle macchine, Feltrinelli, 2015), “la tecnologia non è il nostro destino, siamo noi a dare forma al nostro destino”.
http://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/la-nuova-rivoluzione-delle-macchine/
da Aspenia online, blog di Aspen Institute