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L'irresistibile ascesa di XI Ping


L’immagine sarà crudele. Poco dopo essere stato “incoronato” per un secondo mandato a capo della Cina, Xi Jinping accoglierà Donald Trump a Pechino per la sua prima visita ufficiale: da un lato il numero uno cinese al culmine della sua potenza, dall’altro il presidente statunitense che dopo la sua elezione non è riuscito a combinare granché, neanche a cancellare il tanto odiato Obamacare.

Il 19° congresso del Partito comunista cinese (PCC) che si apre il 18 ottobre in una Pechino rivestita di rosso e strettamente controllata, è da mesi al centro di numerose speculazioni. Ma queste riguardano più la portata del controllo di Xi Jinping sulla leadership del partito e sugli equilibri tra clan e singole persone che la sua vittoria, di fatto già assicurata.

In effetti le due principali potenze del ventunesimo secolo, gli Stati Uniti e la Cina, si trovano in situazioni molto diverse.

Paradossi contemporanei La vittoria di Trump ha gettato la prima potenza economica e militare del mondo in un profondo smarrimento a causa della sua inquietante linea politica. Gli Stati Uniti si salvano solo grazie alla forza delle istituzioni, ai contropoteri (i famosi “check and balances” che restano teorici fino al giorno in cui si rivelano preziosi) e a un dinamismo economico che si mantiene indipendentemente dal governo del momento.

Al contrario di questo paesaggio in crisi, la Cina continua la sua affermazione in tutti i settori – tranne in quello delle libertà, in piena regressione dopo un periodo molto relativo di progresso. Xi Jinping, che incarna la quinta generazione di dirigenti della Repubblica popolare da quando la fondò Mao Zedong nel 1949, è a capo di un paese convinto che sia arrivato il suo momento e che sta ritrovando il suo ruolo centrale nel mondo dopo un’eclissi di un secolo e mezzo.

Il grande paradosso della nostra epoca è che questa ascesa della Cina avviene in contraddizione di tutte le teorie costruite nel corso degli ultimi 20 anni: quelle che affermavano che lo sviluppo economico avrebbe provocato automaticamente l’apertura del regime; quelle che pensavano che internet avrebbe portato la libertà; quelle che negavano a un paese, visto in passato solo come il subappaltatore dell’industria tessile o elettronica in oscuri sweat-shop, la possibilità di essere la culla di un settore innovativo; o quelle che rifiutavano di vedere in un regime autoritario del tutto privo di soft power la capacità di sviluppare una “diplomazia di influenza” in grado di competere con quella degli occidentali.

Su questi quattro aspetti l’errore è stato grande e la Cina ha fatto saltare gli schemi della maggior parte degli osservatori, in particolare sul legame che molti consideravano quasi automatico tra sviluppo economico e libertà. Bisogna dire che all’inizio degli anni 2000 l’evoluzione sembrava dar loro ragione e si era visto un inizio di “società civile”con l’affermazione di una classe media urbana in grado di disporre di più informazioni che in passato grazie allo sviluppo di internet e alla possibilità di viaggiare e di studiare all’estero.

La repressione della società civile Una decina di anni fa si erano sviluppate in ogni angolo di questo immenso paese associazioni ambientaliste, di lotta contro l’aids o di difesa dei diritti; registi indipendenti approfittavano delle nuove tecnologie per esprimersi più liberamente, i giornalisti riuscivano anche nella stampa ufficiale ad ampliare i loro margini di manovra.

Ma Xi Jinping, che alcuni consideravano un riformatore per il semplice fatto di essere più istruito dei suoi predecessori, ha soffocato sul nascere questo embrione di società civile – concetto odiato e sinonimo di “occidentalizzazione”. Simbolo di questa chiusura, nell’estate del 2015 è stato represso il fenomeno degli “avvocati a piedi nudi” – cioè degli avvocati che si mettevano a disposizione dei più poveri e delle vittime delle ingiustizie – con centinaia di arresti, di licenze soppresse, di pressioni per firmare degli impegni a non opporsi al “sistema”.

Il numero uno cinese ha puntato sulla modernizzazione della Cina senza concedere nulla nel campo delle libertà

Lo stesso errore di valutazione ha riguardato la capacità di innovazione di un regime autoritario. Infatti con il suo sistema di economia mista – una miscela di capitalismo statale e di iniziativa privata tenuta sotto controllo – Pechino ha saputo sviluppare al tempo stesso dei “giganti nazionali” partiti alla conquista del mondo in quasi tutti i settori, e un universo di start-up innovative sul modello della Silicon valley che hanno portato la Cina all’avanguardia nelle ricerche sull’intelligenza artificiale e nelle biotecnologie, due settori fondamentali del futuro, e che le permettono di essere innovativa nello sviluppo delle vetture elettriche, altro settore in pieno sviluppo.

Dal suo arrivo a capo del partito e dello stato nel 2012, il numero uno cinese ha puntato sulla modernizzazione della Cina senza concedere nulla nel campo delle libertà. Si presenta anzi, come sottolinea molto giustamente il giornalista di Le Monde François Bougon nel suo libro Dans la tête de Xi Jinping (Actes Sud), come l’anti Gorbačëv: la perestrojka senza la glasnost, le riforme economiche senza la trasparenza, il potere assoluto ed eterno del Partito comunista anche privo di contenuti ideologici.


Il secolo della rivalsa cinese Gli occidentali, che si aspettavano una progressiva affermazione della Cina integrata in quella globalizzazione che avevano costruito, si trovano dal 2008 (e soprattutto dopo il 2012) con un paese che afferma sempre più nettamente la sua potenza – senza concessioni all’interno e impegnato a cambiare progressivamente le regole del gioco nella sua regione e anche all’esterno.

Xi Jinping è l’uomo di questa determinazione implacabile, questo “principe rosso” il cui padre era stato un dirigente rivoluzionario prima di subire la rivoluzione culturale, ha accumulato più potere di qualsiasi altro leader dai tempi dei “padri fondatori”, Mao Zedong e Deng Xiaoping. Il 19° congresso del Partito comunista cinese dovrebbe consolidare la sua posizione, rinnovando le sue istanze di governo e la sua dottrina che esclude qualunque concessione ai “valori universali”, considerati come occidentali.

Mentre il ventesimo secolo è stato dominato dallo scontro ideologico est-ovest, il ventunesimo sembra destinato a essere quello dell’affermazione cinese e dell’adattamento del mondo a questa nuova realtà. Con le sue nuove “vie della seta”, la costruzione di infrastrutture finanziate dalla Cina in decine di paesi, con la sua affermazione militare nel mar della Cina meridionale o con l’instaurazione di un nuovo rapporto di forza con gli Stati Uniti in Asia e nel mondo, la Cina sta cambiando la situazione mondiale.

Il 19° congresso del PCC con la sua coreografia senza sorprese e con il suo culto della personalità del nuovo “Timoniere”, dovrebbe essere il simbolo di questa nuova epoca del “sogno cinese” di grandezza ritrovata. Poco tempo dopo, il vertice con Trump, patetico leader di un “mondo libero” che non sa più se esiste ancora, arriverà a confermare questo senso di potenza cinese.

Ma attenzione a non farsi sedurre da immagini troppo patinate, che potrebbero causare errori di valutazione. Il mondo è più complesso di quello che lascia intravedere la grande cerimonia del Partito comunista cinese.

(Traduzione di Andrea De Ritis)


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