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A 200 anni dalla nascita, riflessioni su Marx


Dalla legge della plusvalenza fino all'alienazione del mondo del lavoro. Sono tante le eredità del filosofo e politico Karl Marx che restano attuali nella società di oggi. Karl Marx, politico, filosofo e economista tedesco è studiato e ricordato da milioni di persone nel mondo ancora oggi. Questo mercoledì, a pochi giorni dal duecentesimo anniversario dalla nascita (5 maggio 1818), Telesur presenta "cinque idee di Karl Marx che sono ancora attuali". 1) “La storia di tutte le società che sono esistite fino ad oggi è la storia di lotta tra classi" Marx ha chiarito che la storia dell'umanità non è stato altro che la lotta delle classi per il controllo dei mezzi di produzione della società e questo non è cambiato. 2) La contraddizione essenziale della società capitalista è la contraddizione tra il capitale e il lavoro

Secondo la visione di Marx questa contraddizione poteva essere risolta solo attraverso una rivoluzione sociale.

3) L'alienazione del lavoro Il lavoratore nell'essere espropriato della sua forza lavoro e del valore che produce si sente alienato. Anche se sa che produce ricchezza e valore la sua opera non gli appartiene. E si sente così "fuori dal lavoro". 4) L'idea della plusvalenza. La plusvalenza è il valore del lavoro non corrisposto al lavoratore del quale si appropria gratuitamente il capitalista. Nella sua essenza si tratta di uno sfruttamento. E non è cambiato nel mondo di oggi. 5) Il valore d'uso, il valore di scambio, il denaro e il mondo dei beni Il capitalismo crea un valore aldilà del valore dell'uso delle cose. Riduce tutto ad una mercanzia, a un valore di cambio che simboleggia e riassume la spoliazione del capitale sul lavoro.


Riproponiamo anche, da Repubblica:

200 anni di Karl Marx: dove ha sbagliato

di Stefano Cingolani

Il 5 maggio di duecento anni fa Karl Marx nasceva a Trier (Treviri) in una casa borghese oggi trasformata in museo. Una messe di rievocazioni tutto sommato benevole se non compiacenti riempiono oggi librerie, televisioni, giornali, cinema (un anno fa è uscito il film sul giovane Marx, qui di fianco il trailer).

E non solo in Italia. Il presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker ha inaugurato una gigantesca statua inviata dalla Cina nella città natale di Marx (nell'immagine di apertura, ndr). Il Financial Times ha recensito in modo entusiasta una biografia molto simpatetica scritta dallo studioso svedese Sven-Eric Liedman. Il quotidiano della city intitola l’articolo: “Perché Marx è più rilevante che mai”. Rilevante lo è stato, senza dubbio, che lo sia ancora è quanto meno discutibile, soprattutto la sua rilevanza è nell’insieme negativa.


Qualche riflessione

Il tentativo di riverniciare la critica del capitalismo alla luce della crisi dell’ultimo decennio è mistificante e impedisce di ammettere che Marx è stato una catastrofe per il movimento operaio e sindacale. Quel movimento è sopravvissuto, si è rafforzato e ha dato un grande impulso alla modernizzazione della società, nonostante il marxismo, perché è stata la democrazia liberale non la dittatura del proletariato ad offrire l’infrastruttura, l’intelaiatura legale, ideale e politica che ha consentito alla classe operaia di crescere, strappare nuove conquiste, acquisire nuovi diritti.

Marx aveva capito che la classe sociale forgiata dal capitalismo e contrapposta alla borghesia aveva bisogno non solo di una proiezione organizzativa, ma di idee forti, anche semplificate, così come erano state quelle di Adam Smith per i partiti liberali.

Non che il movimento operaio, nato nelle fabbriche, non avesse propri riferimenti culturali, per esempio in quello che lo stesso Marx chiamava “il socialismo utopistico” o nel riformismo laburista fiorito soprattutto in Inghilterra. Tuttavia l’ideologia marxista nata in origine per distruggere l’ideologia borghese e con essa tutte le altre manifestazioni ideologiche tra le quali era compresa la religione, si è dimostrata fallace.


Gli errori di Marx

Gli errori sono cominciati con l’economia dove Marx mise in piedi una versione complicata e faticosa della teoria classica del valore. È vero, ha visto chiaramente gli sviluppi della grande impresa industriale, soprattutto nel terzo volume del Capitale rimasto incompiuto, ha capito (anche se non è stato il solo) che il capitalismo alterna crisi e sviluppo, o che l’utilizzo massiccio delle macchine riduce “il tempo di lavoro necessario”, però è rimasto intrappolato nelle proprie contraddizioni.

Marx sosteneva che i prezzi e il saggio di profitto sono incomprensibili e indeterminabili se non si parte dal valore-lavoro. In sostanza il profitto nasce dalla differenza tra il tempo di lavoro necessario a ricostituire i costi di produzione e il plusvalore sottratto all’operaio (è questa la base teorica dello sfruttamento come pilastro del capitalismo).

Ma il fatto è che prezzi e profitti possono benissimo essere determinati senza alcun riferimento ai valori. E dopo il lavoro teorico di Piero Sraffa dovrebbe riconoscerlo anche chi non accetta che l’unica misura sia l’incontro tra domanda e offerta.

L’applicazione della scienza e della tecnica, la concentrazione, il primato della finanza, il consumo opulento, l’aumento del saggio di profitto invece della sua “caduta tendenziale”, tutto ciò relega definitivamente in soffitta la teoria marxista.


Il pensiero politico

Quanto al pensatore politico, ha fallito non solo per colpa di Lenin, di Stalin, di Mao, o del fatto che la rivoluzione non sia scoppiata nelle economie industriali avanzate, in Inghilterra o in Germania, ma in paesi preindustriali e tutto sommato precapitalistici (la “rivoluzione contro il Capitale” così Gramsci, che sarebbe divenuto comunista, giudicò la rivoluzione d’ottobre sul giornale della sinistra socialista, l’Ordine Nuovo).

No, le origini del totalitarismo comunista sono nella idea marxiana di una “dittatura del proletariato” che sostituisse la “dittatura della borghesia” della quale la democrazia liberale sarebbe solo una maschera vuota.

La pensavano diversamente i socialisti tedeschi che scelsero di combattere la lotta di classe seguendo le vie legali, grazie alla conquista del diritto di voto e del diritto di sciopero, con somma irritazione di Marx che si scagliò contro il programma adottato nel 1875 al congresso di Gotha dai socialisti i quali “osavano” chiedere aumenti salariali e il suffragio universale invece di fare la rivoluzione.

Anche quando nel 1891 con il programma di Erfurt accolse il marxismo, annunciando la caduta del capitalismo grazie alle proprie contraddizioni, il partito socialdemocratico (SPD) restò fedele alla originaria impostazione.

Le pagine più belle e profetiche riguardano la funzione storica del capitalismo contenute nel “Manifesto del partito comunista” scritto nel 1848, l’anno delle rivoluzioni liberali in tutta Europa. C’è non solo il riconoscimento della funzione rivoluzionaria della borghesia, ma un vero e proprio elogio della globalizzazione. “Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi”. E ancora: “Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare”. Una frase che oggi i farisei di una pseudo-sinistra giudicherebbero politicamente scorretta.


Cosa resta oggi


Più del Marx economico e di quello politico, duecento anni dopo resta il Marx filosofo, quello che analizza l’alienazione come condizione dell’uomo moderno espropriato della propria essenza.

La potenza della merce e la sua capacità di sussumere in sé e stravolgere le componenti più autentiche e profonde dell’umanità, è qualcosa che parla anche a noi, purché non banalizziamo l’analisi in slogan tipo No Logo.

La stessa potenza perversa, infatti, può essere applicata alle istituzioni, allo stato, al Leviatano, alla nazione e a tutto ciò che ha in sé il rischio di diventare un modello totalizzante e totalitario. C’è un giovane Marx umanista e libertario, dunque, che il Marx maturo ha soffocato. E c’è un Marx capace di capire che il capitalismo è un Proteo in continua mutazione, sia per proprie virtù intrinseche sia perché il suo involucro, la sovrastruttura ideale, giuridica, politica, ha consentito quelle trasformazioni.

Il pensatore di Treviri, purtroppo, viene ricordato per i suoi fallimenti, è un paradosso o, direbbe lui, una eterogenesi dei fini.


 

Si ripropone di seguito anche:


Sviluppi del marxismo:

Eduard Bernstein e la nascita della socialdemocrazia riformista

di Carlo Fracasso

A differenza delle altre ideologie a base filosofica o pseudo filosofica, la corrente di pensiero riportabile in qualche modo alle idee propugnate da Marx e da Engels si è sempre strettamente legata alle fortune ed alle sfortune del movimento operaio e socialista, al punto che i suoi successi non sono misurabili con criteri normali, cioè in base al consenso.o quantomeno all'interesse, dei filosofi e della cultura in genere, ma solo attraverso verifiche reali e sviluppi storici. Se per lo stesso pensiero di Marx l'unica verificazione possibile è la vicenda storica concreta, e secondo i criteri popperiani, è solo partire da qui che si possono offrire falsificazioni e smentite alla teoria stessa, dobbiamo guardare alla storia reale ed al movimento concreto delle gente che lavora , per capire la validità o meno del cosiddetto marxismo.

La prima considerazione da fare è che il movimento dei lavoratori non fu mai automaticamente marxista. E sebbene la sua "politica" e la sua condotta sindacale si ispirasse in gran parte al socialismo, questa non era la sua condizione necessaria. In Inghilterra, ad esempio, non ci fu un consistente partito socialista prima del 1914.

Nemmeno in Giappone, ci fu. Ma, rispetto al Giappone, si tratta certamente di capire che nonostante lo sviluppo capitalistico, mancavano le premesse filosofiche: il Giappone era sostanzialmente estraneo alla cultura occidentale, poco si sapeva di Hegel e della dialettica della storia, ancor meno si sapeva di Marx e del comunismo. Sarebbe interessante studiare le tensioni sociali ed i conflitti di classe del Giappone in una dimensione del tutto aliena alle influenze del pensiero occidentale. Purtroppo non ci sono materiali sufficienti, anche se non è escluso che arrivino in futuro. Potrebbero costituire un dato importante per riflettere su quanto vi sia di universale ed empiricamente fondato nella concezione dialettica della storia proposta da Marx, e cioè che sia la lotta di classe a determinare il corso delle cose, anche se le classi stesse non hanno coscienza di essere classi in senso marxiano. Un discorso più approfondito si potrebbe al contrario fare sulla Cina che, tra l'altro, almeno formalmente è un paese comunista. Ma anche qui, non ci si può nascondere dietro alle formule: il marxismo cinese fu sempre assolutamente diverso da quello occidentale, si sviluppò nelle campagne, divenne una forza pre-industriale, cioè qualcosa che in qualche modo, come del resto la stessa rivoluzione bolscevica del '17, andava contro e non a favore della pura teoria marxiana della classe operaia pienamente sviluppata in un regime capitalistico come unico e genuino soggetto rivoluzionario.

Tornando all'Europa, è certo vero quanto scritto da Donald Sassoon: «Contrariamente a quanto credevano in pratica tutti i socialisti dell'epoca, non esisteva alcun nesso causale necessario tra la formazione di un movimento operaio organico e l'ideologia del socialismo.» (1)

Quanto al fatto che il marxismo si sia "impadronito" dell'esclusiva del socialismo in condizioni di libera concorrenza ideologica (non di monopolio e non di terrore) fu certamente vero, ma la prima cosa da osservare che questo marxismo non era il marxismo di Marx, ma una sua versione volgare.

Un riscontro indicativo lo si può trovare facilmente in questa nota di Otto Bauer: «Dalla storia delle scienze naturali e della filosofia molti esempi si possono trarre a dimostrazione di come la semplificazione e la volgarizzazione di una nuova dottrina non siano che uno stadio della sua avanzata vittoriosa.» Cosa che se fosse vera assolutamente sarebbe quantomeno inquietante. Il fatto è che comunque risulta vera sotto determinate condizioni. Ed anche il marxismo, purtroppo, come l'evoluzionismo ed il darwinismo, fu ridotto a semplici slogans.

Donald Sassoon descrive molto bene la formula chimica del marxismo volgare. Essa si riassumeva in una trinità di proposizioni:

1) il sistema capitalistico è ingiusto. Formalmente esso si realizza nello scambio tra lavoro e salario, ma i capitalisti ingannano i lavoratori facendoli lavorare di più del necessario e si appropriano del plusvalore prodotto.

2) La storia procede per stadi. Ogni stadio corrisponde ad un sistema economico che altro non è se non un sistema di potere al servizio della classe economicamente dominante. Anche il capitalismo non è eterno.

3) I lavoratori dell'industria costituiscono una classe omogenea con interessi simili. Essi possono lottare per migliorare le loro condizioni di lavoro e di vita, ma debbono aver chiaro che il fine ultimo è la liberazione dall'ingiustizia fondamentale, cioè l'appropriazione privata del lavoro reso socialmente. Questo nuovo ordine non arriva da solo, occorre dunque lottare.


Quanto descritto sopra non è propriamente falso. In qualche modo, cioè coglie l'essenza del pensiero marxista, ma la coglie all'ingrosso e nell'ingrosso si perdono dettagli e sfumature altrettanto essenziali quali il concetto di contraddizione oggettiva crescente tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. Concetto che è in qualche modo spiegabile se si comprende che per sviluppo delle forze produttive si intende soprattutto istruzione, non solo formazione professionale ma acquisizione di una cultura, la stessa cultura umanistica, scientifica e tecnica che possiedono i padroni. E' a quel punto che la contraddizione diventa insanabile e che l'eguale reclama la sua parte consapevole di averne diritto.

Potremmo dilungarci su questi aspetti, ma non è questo il fine del mio scrivere.

Chiarita sia pure a grandi linee la situazione sociologica del marxismo, dobbiamo guardare al marxismo concreto degli intellettuali socialisti e comunisti a cavallo tra fine Ottocento ed inizio del Novecento.

Siamo in piena epoca positivistica. E lo stesso ultimo pensiero di Marx, e di Engels, era parzialmente mutato rispetto a quello degli esordi. Non era più solo una critica delle ideologie borghesi e della filosofia tedesca (inglese e francese) e nemmeno solo più una critica all'insufficienza dell'economia politica inglese. Per l'ultimo Marx, il comunismo non è una filosofia, ma il punto di vista scientifico dei comunisti che si oppone alle ideologie ed alle false coscienze dei filosofi.

L'idea di Engels, espressa chiaramente in Ludwig Feuerbach ed il il punto d'approdo della filosofia classica tedesca, era che "con Hegel fosse finita la filosofia".

Per i marxisti di fine secolo, Marx non è filosofo, ma scienziato sociale al pari di Darwin nelle scienze naturali. Ciò è in parte spiegabile col fatto che il pubblico non dispone come ora di tutti i testi di Marx. Alla fine del secolo La sacra famiglia era una rarità bibliografica.

Come scrisse acutamente Karl Korsch, mentre i professori di filosofia si persuadevano l'un l'altro che l'impianto marxista era sprovvisto di un suo proprio contenuto filosofico, ed erano così convinti di dire qualcosa contro il marxismo, i marxisti erano convinti che questo fosse un argomento a favore ed a nessuno venne in mente di contestarlo. Nel clima positivistico era meglio passare per scienziati sociali anziché per filosofi d'accademia.

Tipico rappresentatnte di questo atteggiamento fu Rudolf Hilferding, per il quale il marxismo era solo una teoria delle leggi dello sviluppo storico e sociale, una dottrina scientifica "logica ed oggettiva".

Bisogna guardare soprattutto all'Austria ed alla Germania per avere idea di cosa avvenne nel dibattito tra marxisti prima delle rivoluzionarie apparizioni in scena di Rosa Luxemburg, Lenin e Antonio Gramsci. Ognuno di essi porterà fuori, a suo modo, il pensiero marxista dalle secche della scolastica volgare in cui si era intrappolato.

Eduard Bernstein fu l'esecutore testamentario di Engels, ma anche il primo revisionista della storia, che spostò volutamente e consapevolmente il problema della trasformazione sociale dalla rivoluzione alle riforme.

Al contrario, Karl Kautsky (1854-1938) cercò, quanto meno all'inizio della sua militanza e per un lungo tratto, di sistemare il marxismo come una scolastica, associando genuini spunti del pensiero di Marx ad una visione volgare del materialismo. Dopo il 1909, egli ritenne necessaria una collaborazione tra proletatariato tedesco e borghesia, pur continuando a sostenere che i modi reali della proprietà capitalistica non potevano essere eliminati solo con le riforme.

L'importanza storica di Eduard Bernstein (1850-1932) è legata strettamente alla nascita del riformismo socialista e quindi della socialdemocrazia europea. Alla base di questa impostazione, a mio avviso, era strettamente connessa l'idea che la classe operaia delle nazioni più evolute avesse la possibilità di trarre concreti vantaggi dall'esistenza di un regime capitalistico fondato sulla divisione internazionale dei mercati e del lavoro, quantomeno provvisoriamente. La sua era una visione ristretta alla Germania, all'imperialismo tedesco, ai privilegi dell'essere tedesco. Il passaggio da posizioni rivoluzionarie a posizioni riformiste non poteva che assumere caratteri opportunistici rispetto alla solidarietà internazionale tra i lavoratori. Ma non è detto che questo sia una sorta di "male assoluto" del socialismo europeo anche attuale. Si tratta solo di una caratteristica oggettiva. Avendone coscienza, si può correggere, nei limiti del possibile.

La conduzione democratica dello stato, ha per Bernstein un valore immediato ed assoluto. La si raggiunge attraverso la collaborazione tra classi diverse ed antagoniste, essendo ben consapevoli che in Germania esistono spinte autoritarie e conservatrici più forti che mai. A questo riguardo Bernstein scrisse una cosa imporatante:«Il principio della democrazia è la soppressione del dominio di classe.» E, sempre ne I presupposti del socialismo e i compiti della democrazia, aggiungeva:« Il suffragio universale è soltanto un frammento di democrazia, anche se è un frammento che alla lunga è destinato ad attrarre agli altri come il magnete attrae i frammenti di ferro. E' un processo che certamente avanza più lentamente di quanto molti desiderano, e tuttavia è in atto. Per favorire questo processo, la socialdemocrazia non ha strumento migliore di quello di porsi senza reticenza, anche sul piano dottrinale, sul terreno del suffragio universale e della democrazia, con tutte le conseguenze che ne derivano per la sua tattica.»

Assunta questa coscienza, i lavoratori, dice Bernstein ne Il movimento operaio non minacciano più lo stato ma "al massimo una determinata forma di stato o un determinato regime". Il movimento operaio è, anzi, diventato un fattore di forza dello stato:«... lo protegge, l'appoggia dall'interno contro gli interessi particolari di influenti gruppi economici o di altre condizioni sociali sfruttatrici, e ne rafforza la sicurezza esterna sia in via indiretta grazie al carattere internazionale del movimento operaio, sia direttamente, neutralizzando l'influenza degli elementi che entro gli stati cercano di provocare complicazioni internazionali.»

Bernstein si avvicinò al marxismo attraverso Engels. Come hanno osservato Gian Mario Bravo e Corrado Malandrino (2) : « legge [Engels] alla luce di un apparato critico e metodologico poco usuale nel coevo mondo socialista. Scinde il marxismo dall'hegelismo (politicamente da blanquismo) e lo accosta a Kant e all'etica: il che comporta la separazione del socialismo dalla considerazione esclusiva del mondo industriale e, all'inverso, l'analisi globale della società produttiva, istituzionale e civile. [...] Con realismo, Bernstein vuol rendere compatibili il socialismo, il marxismo e le società capitalisticamente progredite, in cui sono radicati regimi liberali e stanno crescendo regimi democratici.»

L'analisi di Bernstein è semplice. Il sistema non è crollato, non vi sono state catastrofi, il proletariato non si è immeserito come previsto da Marx, sta persino un po' meglio. Quindi alcune analisi di Marx vanno riviste, anche se, questo è il punto, né i capitalisti sono "maturi" a sufficienza per una sorta di autolimitazione in grado di alleggerire il peso portato dai lavoratori stessi, né questi, a loro volta, sono materialmente e culturalmente in grado di prendere il potere e governare.

In tale situazione, aperta a più soluzioni, nessuna delle quali abbastanza matura storicamente, ecco la tattica socialdemocratica, ovvero avanzare attraverso riforme graduali ed un uso intelligente della democrazia parlamentare.

Innegabilmente, il pensiero di Bernstein fu influenzato da pensatori di area kantiana e neokantiana e dalla loro critica al marxismo su basi antideterministiche. Ma un punto centrale della riflessione bernsteiniana era di tipo etico, questioni che non si trovano né in Marx, né in Engels se non in forme "naturalistiche" ed antiborghesi.

Nel già citato I presupposti del socialismo ed i compiti della socialdemocrazia, egli giunse ad invocare "un Kant" della socialdemocrazia, capace di dare al proletariato "una morale sana":«... ciò a cui penso è la mirabile connessione che Lange ha realizzato tra una leale e decisa presa di posizione a favore della lotta di emancipazione della classe operaia e una eccezionale spregiudicatezza scientifica, sempre pronta a confessare errori ed a riconoscere nuove verità.» Il passo può essere letto anche come una giustificazione alle posizioni antidogmatiche assunte dallo stesso Bernstein, ma è evidente che quando egli allude ad una morale nuova, allude anche al costume etico di non avere nell'armadio mostri sacri intoccabili, nemmeno Marx.


Il Lange citato da Bernstein era Friedrich Albert Lange, autore tra l'altro di Die Arbeiterfrage in ihrer Bedeutung für Gegenwart und Zukunft, del 1865. Lange, come tutti i kantiani del resto è autore poco noto in Italia, non tradotto, ma è certamente interessante anche per capire il travaglio di certo marxismo tedesco. La posizione di Lange è chiaramente anti-marxista. Fu assolutamente critico nei confronti del determinismo storico, e di Marx non accolse la tesi di una necessità naturale della negazione del sistema capitalistico. Lange vide in questa presunta naturalità antiborghese dell'uomo una "costruzione speculativa", succube della dialettica hegeliana. Si augurava un'azione riformatrice, un superamento delle insopportabile condizioni di "lotta per la vita" in cui erano costretti i lavoratori. Tuttavia, in Lange, non troviamo ancora l'idea di fondare il socialismo su basi etiche e kantiane. Ispirazione questa che troveremo invece in Hermann Cohen.

Bernstein fu combattuto aspramente da Karl Kautsky, fino a quando lo stesso non si trovò persino più a destra del socialdemocratico Bernstein.

Nei prossimi files dedicati agli sviluppi del marxismo, vedremo sia le posizioni di Kautsky che quelle, molto interessanti, di Hemann Cohen e dei cosiddetti socialisti neokantiani.

 

note: (1) Donald Sassoon - Cento anni di socialismo - Editori Riuniti (2) Gian Mario Bravo e Corrado Malandrino - Il pensiero politico del Novecento - PIEMME 1994

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