Telecom, dalla privatizzazione a Cattaneo: 20 anni di fuoco tra politica, manager e azionisti
La debolezza degli assetti societari, dal nocciolino duro targato Fiat fino ad oggi attraverso cinque passaggi di proprietà, patti di sindacato deboli, scatole finanziarie e un rapporto perennemente conflittuale con Governo e Parlamento
È stata "la madre di tutte le privatizzazioni". È diventata la fonte di tutte le maledizioni. Per chiunque l'abbia comprata o venduta, scalata o spolpata, lottizzata o gestita. Politici e azionisti, presidenti e amministratori delegati: tutti quelli che negli ultimi venticinque anni hanno avuto le mani in pasta su Telecom si sono bruciati. Ora tocca a Flavio Cattaneo. È stato seduto per appena sedici mesi sulla sedia più elettrica dell'industria italiana. Al ruvido manager non è bastato un Vietnam di tre anni alla Rai, per capire che certe battaglie di potere, come insegna Sun Tzu nel suo trattato sull'Arte della guerra, le devi fare solo se sei sicuro di poterle vincere. E lui, nonostante l'ottima semestrale che verrà illustrata nel cda, la guerra non poteva vincerla. Le battaglie di Cattaneo sono state tre. Quella sulla banda ultra- larga, che per l'Italia vale 6,5 miliardi e sulla quale Telecom ha annunciato 5 miliardi di investimenti. Quella sulla copertura delle zone a fallimento di mercato, in competizione con Open Fiber. Quella strategica sulle reti, a partire da quella internazionale e ad altissima capacità di Telecom Sparkle. I nemici di Cattaneo invece sono stati due. Quello "interno", il suo azionista di riferimento Vincent Bolloré e la corazzata francese Vivendi. Quello "esterno", il governo Gentiloni-Calenda e la consorteria toscana Renzi-Carrai. Due nemici per una volta con interessi convergenti. Ai quali, tanto per cambiare e in piena coerenza con lo spirito
nazareno dei tempi che ci aspettano, non è stato estraneo neanche Berlusconi. Dai "capitani coraggiosi"a Telco La storia di Telecom è una continua sarabanda di politicanti che strepitano e di capitalisti che latitano. Di ricavi che evaporano e di teste che rotolano. In un intreccio di mutue inettitudini, non c'è manager che non abbia avuto un conflitto esiziale con il governo di turno. Tutto comincia nel '97, quando il più tosto dei boiardi Ernesto Pascale si gioca la poltrona con il governo ulivista di Prodi che gli privatizza la Stet. Prosegue con Guido Rossi, innamorato del modello public company, tradito dal "nocciolino duro" del misero capitalismo privato, che con una risibile "fiche" del 6,62% (la famiglia Agnelli si limita addirittura a uno 0,6, poche centinaia di milioni di vecchie lirette) controlla un gigante da 23 mila miliardi. Prodi litiga ferocemente con Gianmario Rossignolo, piazzato in Telecom dall'Ifil. Poi D'Alema trasforma Palazzo Chigi "nell'unica merchant bank dove non si parla inglese" (copyright, lo stesso Rossi) e nel '99 benedice la scalata dei "capitani coraggiosi" Colaninno e Gnutti, che comprano a debito per 61 mila miliardi il 51% del gruppo e fanno piazza pulita dell'intero management. Nel 2001 tocca a Tronchetti Provera comprare a leva la telefonia nazionale e scaricarci sopra un'altra montagna di debiti. Ed è tutto un fondere e "sfondere" Telecom e Tim, giusto per fare un po' di cassa. Nel 2006 torna Prodi, e da premier rompe subito con Tronchetti. Aldone Rovati, il compianto "colosso di Prodi" (copyright Giulio Tremonti) gli recapita in via riservata un piano per lo scorporo della rete. Il patron di Pirelli non ci sta e nell'ottobre 2007 si dimette e molla tutto. Inizia l'era Telco, la holding partecipata dagli spagnoli e dagli ex Poteri Forti (Mediobanca, Generali e Intesa). Ai comandi c'è Franco Bernabè, che invece litiga con Berlusconi, nel frattempo tornato a Palazzo Chigi nel 2008 e impegnato nelle "cene eleganti" e nei ritagli di tempo anche nella grottesca crociata a difesa dell'italianita', "minacciata" a suo dire da Telefonica e da Rupert Murdoch. Nell'ottobre del 2013 è la volta di Marco Patuano, che due anni dopo finisce invece nel mirino di Renzi: Telecom vuole difendere la rete mista fibra-rame, il nuovo governo del rottamatore lancia il piano alternativo Metroweb-Cdp sulla banda larga. Passa un anno, e passa anche Patuano. Perché nel frattempo sono scesi in campo i francesi di Vivendi, che nel marzo 2016 puntano tutto su Flavio Cattaneo. Bolloré: raider o industriale? Cosa è successo in poco più di un anno, che può giustificare l'ennesimo ribaltone? Il mistero è racchiuso in un enigma. E quell'enigma si chiama Vincent Bolloré. Chi è e cosa vuole il finanziere bretone non lo capisce nessuno. Lo racconta Alain de Pouzilhac, ex presidente di Havas a sua volta scalato e fatto fuori da Vivendi nel 2005. I due, ricchi sfondati, sono in vacanza al mare, ognuno sul suo yacht, quando Bolloré lo chiama: "Mi piace la tua azienda, hai qualcosa in contrario se da amico sottoscrivo un 5%"? Pochi mesi dopo si prende tutto, azzera azionisti e manager, salvo poi ricedere la sua quota qualche anno dopo, non prima di aver "svuotato" Havas. Allora de Pouzilhac formula il suo teorema: "La verità per Bolloré non esiste: cambia a seconda della necessità". Seguono due corollari, in forma di interrogativo: "Bolloré è un raider o un industriale?" Se Bolloré è un raider, il destino di Cattaneo è stato segnato da ragioni borsistiche. L'amministratore delegato ha rimesso i conti in ordine. In attesa dei numeri della semestrale di giovedì prossimo, valgono i conti del 2016: è tornato l'utile (1,8 miliardi), è risalito l'Ebitda (più 14,2%), è sceso l'indebitamento (25,1 miliardi). Ma tutto questo, e non è poco, a un "predatore" di razza non poteva bastare. Lo segnalano gli analisti: "Il paradosso di Cattaneo è che ha lavorato bene, ma non ha schiodando il titolo, fermo intorno a 0,80, mentre Bolloré ha in carico le azioni a 1,2". Come dire: Vivendi ci sta rimettendo. In un road-show a New York, nel febbraio scorso, Cattaneo ha dato una buona notizia ("in 9 mesi abbiamo raggiunto gli obiettivi che il piano precedente fissava in un triennio") ma anche un ferale annuncio: "I dividendi saranno congelati per tre anni e devoluti a investimenti e riduzione del debito". Il Bretone, che già sentiva il profumo di 350 milioni di cedole, c'è rimasto male. Le voci sulla "sfiducia" dell'azionista hanno cominciato a circolare subito dopo. E allora ecco una delle ragioni che può spiegare il siluramento del ceo, in base al secondo corollario del teorema de Pouzilhac: se il raider Bolloré non guadagna, può fare solo due cose: o scappa via lui o caccia via i vertici. Lo scontro con il governo Se Bolloré invece è un industriale, il destino di Cattaneo è stato segnato da ragioni politiche. Nel futuro delle tlc i governi Renzi e Gentiloni hanno scommesso su Open Fiber, la joint-venture tra Enel e Cdp che dovrebbe portare la fibra nelle case degli italiani ("fiber to the home"). Un affare da 6,5 miliardi. Dopo un impegno in equity per 750 milioni, Starace e Gallia hanno disposto un finanziamento ulteriore di 500 milioni, altri 500 milioni sono in arrivo dalla Bei, e la prima tranche per altri 500 milioni del project financing da 3,5 miliardi arriverà entro agosto. Spiazzata da tanto attivismo, Telecom- Tim si è mossa a sua volta sulla sua rete ("fiber to the cabinet"). Cattaneo è passato al contrattacco con il governo parlando di "bandi costruiti ad hoc per le gare Infratel", cioè quelle che servono a portare la banda ultra-larga nelle aree "a fallimento di mercato". Detto altrimenti: se la politica vuole agevolare Open Fiber con gare addomesticate, Telecom lancia un piano autonomo per la copertura in fibra delle zone disagiate. Il ministro delle Attività produttive si è infuriato. Oggi sdrammatizza: "Non ho nulla contro Cattaneo, che è un ottimo manager e fa gli interessi della sua azienda. Ma io devo fare quelli del Paese. Telecom prima ha detto che non investiva per tre anni, poi ha cambiato idea. Noi abbiamo investito denaro pubblico sulla banda larga, ma un conto è se investi con un monopolista, un altro conto è se investi su un mercato aperto. Ho chiesto un parere alla Commissione Ue. Aspettiamo, ma intanto andiamo avanti con Open Fiber". Dunque, l'incidente è chiuso solo sul piano formale. Sotto il profilo industriale, invece, la contesa va avanti. Come va avanti quella sul destino di tutte le reti. "In un paese ideale - è ancora la tesi di Calenda - sarebbe opportuno avere una grande rete nazionale nella quale confluiscono pubblico e privato". Ma è la vecchia idea dello scorporo, che pronunciata in casa Telecom suona come una bestemmia. La stessa cosa vale per un'infrastruttura strategica come la rete di Telekom Sparkle, oltre 500 mila chilometri in fibra ottica posati tra Mediterraneo e Atlantico, con una capacità di trasmissione di 24 terabyte al secondo (2 milioni di volte in più delle fibre urbane). Su quei cavi transitano tutte le informazioni sensibili dei servizi segreti europei. Medio Oriente, Israele, Corno d'Africa. Un traffico dati che vale un patrimonio. Su questi dossier Cattaneo non cha ceduto di un millimetro. "Il problema - spiega Massimo Mucchetti, senatore Pd che ha ascoltato tutti i protagonisti in audizione a Palazzo Madama - è che se Bolloré vuole perseguire disegni industriali, e di lungo periodo, non deve litigare troppo con il governo". È la stessa tesi sostenuta una settimana fa da una fonte vicina al finanziere bretone, riportata dalla Reuters: "L'obiettivo di Vivendi è di riavvicinarsi con il governo". Il segnale più tangibile è il ritorno sulla scena di Bernabè, inserito dai francesi nella lista degli indipendenti per il rinnovo del cda. L'ex ad è amico di Renzi, in rapporti molto stretti con Marco Carrai, vicino ai servizi, alle authority e alla magistratura. È anche l'ultimo manager di Telecom ad aver lavorato concretamente a un progetto di scorporo della rete che oggi, come testimonia Calenda, sarebbe molto gradito al governo. Il fattore Mediaset Ma cosa potrebbe "scambiare" Bolloré, dopo aver offerto a Palazzo Chigi lo scalpo di Cattaneo? Vivendi è ancora impigliata nella vicenda Mediaset. L'Agcom, legge Gasparri alla mano, gli ha intimato di fare un passo indietro, o su Telecom o sul Biscione. Il pacchetto di norme "anti-scorrerie" messo a punto da Calenda doveva passare entro l'estate, ma è rimasto chiuso nei cassetti del ministero. Berlusconi, due anni fa, aveva negoziato con Renzi una possibile fusione MediasetTelecom. A luglio dell'anno scorso Arnaud de Puyfontaine, ceo di Vivendi e ora anche presidente di Telecom, aveva commentato questa proposta con un sibillino "non abbiamo preconcetti". Se dalla roulette delle prossime elezioni uscisse davvero un Renzusconi, magari quello scenario si potrebbe riproporre. Ecco allora che si torna al teorema de Pouzilhac, ma in questo caso al secondo corollario: se l'industriale Bolloré non ha un manager che asseconda i suoi progetti, può fare solo una cosa: lo licenzia. Avanti un altro. E su quella sedia elettrica la sarabanda continua. Resta solo un'ultima risposta che la Consob dell'ormai uscente Giuseppe Vegas, tra un'ispezione e l'altra, dovrebbe esigere dal bizzoso sovrano di Bretagna. Sua Altezza si è stancata di Cattaneo, e ha il dovere di dire forte e chiaro perché al mercato. Date le circostanze e la natura del business, basta anche una telefonata.