Ex-Ilva, un caso di masochismo di Stato
Una volta si diceva che il ciclo integrale del gruppo siderurgico avesse ritmi di lavoro giapponesi o quasi. Oggi siamo diventati ancora più bravi dei maestri del Sol Levante soprattutto in una cosa: a fare “harakiri”
Ex -Ilva: ci risiamo, tanto per cambiare. Credo che la storia del gruppo siderurgico, con 15mila posti di lavoro a rischio tra Taranto, Genova e Novi Ligure, sia la vera cartina di tornasole di come la politica (e non solo) possa condizionare il cammino di un'impresa in Italia. In effetti, raccontando le vicende di quello che veniva definito “il colosso dell'acciaio”, viene naturale parlare di una visione, spesso e volentieri, masochistica da parte dello Stato. Tanti gli episodi che si sono moltiplicati negli anni a partire dai tempi del miracolo economico. L'ultimo è quello che ha causato l'intervento, in questi giorni, dell'ad di Arcelor Mittal Europa, Geert Van Poelvoorde, che ha annunciato la chiusura dell'ex-Ilva dal prossimo 6 settembre se non ci sarà più la protezione legale prevista per le società che operano nell'area del gruppo. A cancellare questa garanzia è stato, infatti, il decreto-crescita appena varato e voluto dai Cinque Stelle. L'aut-aut dell'amministratore delegato ha subito provocato le ire del vice-premier Luigi Di Maio (“non accetto ricatti”), ma, al di là della reazione risentita del ministro grillino, la vicenda ha sorpreso molti osservatori perché si tratta dell'ennesimo “deja vu” .
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Sto esagerando? Basta ricordare un episodio che accadde in un'altra estate, quella del 2012, con altri governi ed altri chiari di luna. L'Ilva di Taranto venne fermata da un'ordinanza del gip che impose il blocco degli impianti per evitare l'emissione di fumi nocivi. Senza voler entrare nel merito dell'ordinanza, scrissi allora che mi sembrava una vicenda “kafkiana”. Intendiamoci, la nostra salute deve essere sempre salvaguarda in tutti i modi, ma anche sette anni fa venne messo seriamente in forse il futuro del più importante centro europeo per la produzione d'acciaio. Non si trattava di un facile allarmismo: basta ricordare cosa successe, ancor prima, allo stabilimento siderurgico di Bagnoli, in Campania, che dovette davvero chiudere i battenti. E, a proposito d'inquinamento, il motivo principale per cui ArcelorMittal ha oggi alzato le barricate contro l'abolizione dell'immunità penale è proprio il fatto che gli impianti, finché non verranno ultimati i lavori in corso, non sono ancora del tutto a posto dal punto di vista ambientale.
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Ecco, dunque, un nuovo episodio della “telenovela” siderurgica che, se vogliamo, appare ancor più “kafkiano” per il semplice motivo che Di Maio, dall'insediamento del governo gialloverde, non si è certo risparmiato nei suoi “j'accuse” nei confronti dell'ex-Ilva.
Non dobbiamo fasciarci la testa prima del tempo perché è molto probabile che, prima del 6 settembre, si possa trovare una soluzione - e un incontro tra il vice-premier e l’ad di Arcelor –Mittal è già stato fissato per giovedì prossimo - ma, intanto, è destino che non ci sia pace, soprattutto d'estate, per i lavoratori d'acciaio. Nel 2012, proprio ai tempi dell'ordinanza sui fumi nocivi, si diceva che il ciclo integrale del gruppo siderurgico avesse ritmi di lavoro giapponesi o quasi. Oggi siamo diventati ancora più bravi dei maestri del Sol Levante soprattutto in una cosa: a fare “harakiri”.
1 luglio 2019
Osservato dall'epicentro, il terremoto dell'Ilva ha prodotto a Taranto un cratere di paure e di declino e ha propagato le sue onde d’urto sull’intera economia italiana. Nei sette anni perduti dell'Ilva, dagli arresti e dal sequestro del 26 luglio 2012, sono andati in fumo 23 miliardi di euro di Pil, l’1,35% cumulato della ricchezza nazionale. L’Ilva è una questione nazionale: il Nord industriale, cuore della meccanica, del bianco e della componentistica auto che di acciaio si nutrono, ha visto bruciare 7,3 miliardi di Pil.
L’Ilva, un tempo tassello fondamentale per l'economia italiana, è ancora lì. I franco-indiani di Arcelor Mittal, salutati fra molte speranze quando si sono aggiudicati all’asta l’acciaieria prevalendo sulla cordata imperniata su Jindal, Arvedi, Cdp e Leonardo Del Vecchio, hanno messo in cassa integrazione per il calo della domanda europea 1.395 addetti e, ora, avvertono che non accetteranno rimodulazioni da parte del governo della non punibilità di nuovi proprietari e dei nuovi amministratori per reati ambientali compiuti in passato.
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Taranto, che da capitale industriale del Sud ha vissuto l'infelice paradosso di sperimentare il problema dell’impatto sulla salute e sull’ambiente di una industria di base novecentesca e di avere però livelli di reddito e di benessere materiale paragonabili al Nord, si sta meridionalizzando anche nelle statistiche. E, a sette anni dagli arresti e dal sequestro della fabbrica allora di proprietà dei Riva, il bilancio consolidato degli effetti sull'economia italiana continua a peggiorare. Con una specificazione: l’effetto è particolarmente consistente nel Nord industriale, a significare che l'Ilva è una questione nazionale.
Secondo l'aggiornamento dell'analisi econometrica compiuta dalla Svimez per Il Sole 24 Ore, l'impatto sul Pil nazionale è pari ogni anno, fra il 2013 e il 2018, a una perdita secca compresa fra i 3 e i 4 miliardi di euro, circa due decimi di punto di ricchezza nazionale. Nel 2019, questa riduzione verrà resa più onerosa dalla decisione di Arcelor Mittal di mantenere a 5,1 milioni di tonnellate la produzione di acciaio, anziché i 6 milioni promessi appena arrivati a Taranto: nel 2019, la ricchezza nazionale bruciata sarà di 3,62 miliardi. Negli anni perduti dell'Ilva, fra 2013 e 2019 è stato cancellato Pil per 23 miliardi di euro, l'equivalente cumulato di 1,35 punti percentuali di ricchezza italiana.
Oggi è il tempo di un disorientamento dell’intera manifattura italiana di cui il caso estremo dell’Ilva di Taranto, con il suo caos ambientale-giudiziario-politico-industriale non ancora risolto, racconta molto. Dice Palombella: «L'impatto sul Nord industriale è stato immediato e profondo. Non avere un produttore di prossimità ha provocato difficoltà. Il vuoto produttivo di Taranto si è trasmesso a tutto il resto della economia nazionale: la metalmeccanica, la componentistica automotive, il bianco».
Sì, perché l'economia nazionale fra Nord e Sud resta, nonostante le divaricazioni crescenti, molto integrata. Fra 2013 e 2019, a causa della crisi dell'Ilva sono stati eliminati export delle imprese per 10,4 miliardi di euro e consumi delle famiglie per 3,5 miliardi.
E, osservando da Taranto il combinato disposto di implosione locale e di esplosione nazionale, non si può non notare come poi tutto il resto del sistema industriale nazionale abbia avuto un problema di fornitura. «Il valore del maggior import di acciaio dall'estero – spiega Stefano Prezioso, ricercatore della Svimez – è stato pari a 4,1 miliardi di euro». Una cifra consistente, fatturata da produttori di stranieri: «In particolare – riflette Palombella – sono entrati nel nostro mercato i cinesi e i coreani, a sostituire un prodotto dell'Ilva che è sempre stato di buona qualità, ma elementare».
Nel meccanismo del terremoto dell'Ilva, che sembrava avere trovato un punto di equilibrio e di ricomposizione nell'assegnazione della acciaieria commissariata alla Arcelor Mittal che però in una logica di gruppo ha ridotto la produzione al calo della domanda europea di acciaio, non c'è soltanto l’esplosione nazionale, ma anche l'implosione locale. Implosione locale che ha reso parossistica ed estremamente dolorosa l'attitudine adattiva della manifattura italiana. In questo senso, appare un campione interessante il novero degli associati di Confindustria Taranto, che oggi qui ha la sua assemblea. Le seicento aziende associate (la metà del tessuto produttivo tarantino) sviluppano il 35% del fatturato con il Nord, il 40% con il Sud (quel che resta della vecchia industrializzazione pubblica), il 25% con l'export. Sette anni fa, quando tutto ebbe inizio, l'export non superava il 10% e anche la committenza nazionale era molto più concentrata, riguardando pochi grandi gruppi. Inoltre, nel 2012 la metalmeccanica era egemonica: usando l'indicatore grezzo del numero delle aziende associate, il 60% afferiva alla metalmeccanica (ora questa quota è il 40%), la moda era residuale (oggi invece il fashion tarantino esiste) e l'agroalimentare era di matrice soprattutto agricola.
Racconta Vincenzo Cesareo, presidente uscente di Confindustria Taranto e titolare nell'impiantistica del Comes Group (40 milioni di fatturato, 480 addetti, il 40% di export): «A sette anni dall'inizio di tutto, possiamo dire che è stato un vero shock culturale, giudiziario e finanziario. Ancora oggi le nostre imprese hanno 150 milioni di crediti non incassati dall'Ilva». Anche questa è una eredità irrisolta, nello strano caso dell'Ilva, iniziato sei anni fa d'estate qui a Taranto e arrivato ad un nuovo punto di squilibrio adesso, in questo che sembra così tanto un precoce autunno italiano.