top of page

Ue, perché il governo Lega-5 Stelle ha perso la partita delle nomine I

Il vicepremier Matteo Salvini aveva annunciato un terremoto nelle istituzioni Ue. Il risultato, per ora, non gli ha dato ragione: l’Italia è fuori da quasi tutti i ruoli di peso, con l’eccezione del (socialista) David Sassoli alla guida del Parlamento europeo. Male anche le nomine dei vicepresidenti: la spunta solo il grillino Cataldo, a spese della leghista Bizzotto

Flop a Strasburgo e a Bruxelles


La «rivoluzione del buonsenso» di Salvini parte un po’ a rilento. Le maratone negoziali per il ricambio dei nuovi vertici Ue si sono risolte con un pacchetto di nomine che ha escluso (quasi) del tutto esponenti graditi o sponsorizzati dal governo Lega-Cinque stelle. La possibile presidente della Commissione Ursula von der Leyen è un membro della Unione cristiano-democratica di Angela Merkel, il neopresidente del Consiglio europeo Charles Michel appartiene alla famiglia europea dei liberali, la nuova numero uno della Bce Christine Lagarde è stata spinta da Emmanuel Macron, l’alto rappresentante per la Politica estera Josep Borrell è un vecchio volto della famiglia dei Socialisti&Democratici. Così come è socialista l’unico italiano eletto in un ruolo di peso: l’eurodeputato del Partito democratico David Sassoli , neopresidente del Parlamento europeo, nominato al secondo turno di voti grazie all’appoggio di Partito popolare europeo e dei liberali confluiti nel gruppo Renew Europe.

I Cinque stelle si consolano con la rielezione del loro eurodeputato Fabio Massimo Castaldo fra i 14 vicepresidenti dell’Eurocamera, rendendolo il primo nella storia a ricoprire l’incarico senza essere iscritto a un gruppo politico. Resta a bocca asciutta la Lega, ostile all’elezione di Sassoli e delusa dal flop della candidatura alla vicepresidenza dell’eurodeputata Mara Bizzotto. La diretta interessata ha parlato di una «sconfitta della democrazia» e di uno «schiaffo a nove milioni di italiani che hanno votato Salvini». Ma le ragioni del doppio scivolone, a Bruxelles e Strasburgo, vanno cercate su altri fronti.

A Bruxelles il boomerang del no a Timmermans In una intervista al Corriere della Sera, il premier Giuseppe Conte si è detto soddisfatto del pacchetto di nomine formulato a Bruxelles dal Consiglio europeo dopo una maratona di oltre tre giorni. O meglio, le cose sarebbero anche «potute andare peggio» rispetto alla rosa finale decisa dai leader europei. Ma è così vero? L’impatto maggiore del governo Lega-Cinque stelle, rappresentato proprio da Conte a Bruxelles, è stato quello di opporsi a un nome che sembrava in pole position per la carica di presidente della Commissione: l’olandese Frans Timmermans, già candidato-guida dei Socialisti alla guida dell’esecutivo Ue, catapultato improvvisamente fra i favoriti dopo l’endorsement pubblico di Angela Merkel. L’Italia si è messa di traverso alla sua nomina insieme a un blocco di «10-11 paesi», a partire dall’Ungheria di Viktor Orban, dicendosi contraria più al «metodo di scelta» che alla persona.

Una perifrasi per attaccare il meccanismo degli spitzenkandidat, i candidati indicati dai partiti come lo stesso Timmermans o il tedesco Manfred Weber, visto che avrebbe «penalizzato l’Italia». Il risultato è che Timmermans è uscito di scena, ma la sua attuale sostituta si sposa a fatica con le inclinazioni dell’esecutivo italiano: appunto von der Leyen, ministro della Difesa nel governo di Angela Merkel in Germania. Timmermans ha sempre mantenuto buoni rapporti con il nostro paese (e la nostra lingua: parla italiano), segue una linea flessibile sui conti pubblici ed è favorevole, come il suo gruppo, a una riforma del regolamento di Dublino che incentivi la cooperazione dei vari paesi Ue nella gestione dei migranti. Von der Leyen è comunque espressione della Cdu e del governo tedesco, additato più volte dal governo Lega-Cinque stelle come una sorta di nemesi delle linee guida dell’esecutivo italiano su politica economic a e gestione dei flussi migratori (anche se Merkel si è sempre espressa a favore di una revisione del trattato , poi osteggiata dallo stesso governo italiano).

La «beffa» di Sassoli e il flop delle vicepresidenze Non è andata meglio a Strasburgo, dove si giocava solo la partita della presidenza del Parlamento europeo. Il candidato eletto già al secondo turno di voti, Sassoli, appartiene al Pd e ai Socialisti&Democratici: rispettivamente il principale partito di opposizione al governo in Italia (il Pd) e uno dei gruppi che incarnano la vecchia Europa contestata da Lega e Cinque stelle (i Socialisti). Il voto per il numero uno dell’Eurocamera è segreto, ma è improbabile che le delegazioni dei due partiti abbiano dato la propria preferenza al candidato sostenuto in blocco da Socialisti, Popolari e Liberali. Anche se la sfida si è risolta quasi subito, gli unici concorrenti di peso alla sinistra e alla destra di Sassoli sono stati la Verde Ska Kelle r (133 preferenze al secondo voto) e il ceco Jan Zahradil, esponente del gruppo di destra Conservatori e riformisti (160 voti). Zahradil è la scelta che si avvicina di più alle linee-guida di Identità e democrazia, il cartello politico dei sovranisti capeggiato dalla Lega di Salvini, ma si è fermato a meno della metà dei voti incassati da Sassoli già al secondo turno di voti.


La nomina dei 14 vicepresidenti dell’Eurocamera ha regalato, in compenso, un successo ai Cinque stelle e un fiasco alla Lega. Gli aspiranti vicepresidenti possono presentare la propria candidatura ed essere eletti a maggioranza assoluta. Se il numero di vincitori resta sotto una quota di 14 eletti, si procede a un secondo round. Nel caso non si arrivi neppure in questo caso alla soglia necessaria di 14 figure, si procede a un ulteriore voto a maggioranza semplice. È quello che è successo a Strasburgo. I Cinque stelle hanno incassato la riconferma di Castaldo, eletto con 248 voti al terzo ballottaggio. La Lega ha subito la sconfitta di Mara Bizzotto,già europarlamentare nella legislatura 2014-2019, ferma a 142 voti e scavalcata dal suo “alleato” di governo nella stessa manche di voti. Bizzotto se l’è presa con «le élite e i burocrati di Bruxelles», accusati di voler «cancellare la volontà popolare». Ma a remarle contro è stata, indirettamente, anche la sua stessa famiglia politica. Identità e democrazia, rappresentata a a Bruxelles da 73 eurodeputati, si è astenuta nel ballottaggio decisivo, abbandonando l’aula in segno di protesta contro il ricorso al voto elettronico segreto.

Archivio
bottom of page