Gori risponde a Bettini sui grillini...
31 luglio
Giorgio Gori
Il sindaco di Bergamo replica all’intervento su Linkiesta del dirigente del Partito democratico che liquida l’ex segretario e l’ex ministro come corpi estranei e propone una legge proporzionale e un accordo elettorale con i Cinquestelle prima del voto. Con domanda: ma davvero è «l’ideologo di Zingaretti»?
Sostiene dunque Goffredo Bettini che non è vero che nella sua visione – affidata in questi mesi a varie interviste, l’ultima a Fabio Martini su La Stampa, molto ascoltata dall’attuale gruppo dirigente del Nazareno – il Partito Democratico abbia rinunciato a governare in prima persona, o che il Movimento 5 Stelle sia per lui l’”alleato ideale”.
Eppure sembrava il contrario e anzi continua a sembrare, a cominciare dal primo punto, visto che la lettera di Bettini a Linkiesta, pur sostenendo che il PD avrebbe tantissimi dirigenti capaci di svolgere il ruolo di leader dell’alleanza di centrosinistra, così conclude: «Non si può non vedere che la popolarità che ha conquistato Conte, e il suo rapporto con la maggioranza degli italiani, sono il punto di partenza per ogni ricerca di una leadership della coalizione, rappresentativa e inclusiva dell’insieme delle forze che intendono collaborare». Quindi appunto, come si diceva: il PD rinuncia sin d’ora a governare e si affida all'avvocato del popolo.
Eppure sembrava il contrario e anzi continua a sembrare, a cominciare dal primo punto, visto che la lettera di Bettini a Linkiesta, pur sostenendo che il PD avrebbe tantissimi dirigenti capaci di svolgere il ruolo di leader dell’alleanza di centrosinistra, così conclude: «Non si può non vedere che la popolarità che ha conquistato Conte, e il suo rapporto con la maggioranza degli italiani, sono il punto di partenza per ogni ricerca di una leadership della coalizione, rappresentativa e inclusiva dell’insieme delle forze che intendono collaborare». Quindi appunto, come si diceva: il PD rinuncia sin d’ora a governare in prima persona e si affida all’avvocato del popolo.
Non è però l’unica contraddizione contenuta nella replica all’articolo di Mario Lavia. Sostiene Bettini, indicato da Linkiesta come “l’ideologo di Zingaretti”, che si debba marciare dritti verso una legge elettorale di tipo proporzionale (con sbarramento al 4 o 5 per cento), visto il «modo malato e contraddittorio» in cui si è realizzato in passato in Italia lo schema maggioritario. Uno dei pregi del proporzionale sarebbe quello di consentire ai partiti di «esprimere pienamente di fronte agli eletti le loro caratteristiche, i loro ideali, i loro valori, la loro idea dell’Italia» salvo disporsi ad un «trasparente, onesto e motivato» compromesso di coalizione dopo il risultato elettorale. Così dovrebbe essere, in effetti. Sappiamo anzi che il proporzionale tende ad accentuare le divergenze tra i partiti, ognuno dei quali è spinto a sottolineare le proprie specificità nella competizione elettorale con tutte le altre forze politiche. Non si capisce pertanto perché Bettini insista a voler comporre un’alleanza pre-elettorale (con i 5Stelle), o perché sia spinto a dover incoronare sin d’ora Giuseppe Conte leader della coalizione. Proporzionale infatti = no coalizione. Ognuno corre per sé e poi si vede. Cosa che rende particolarmente incomprensibile la strategia volta a consolidare l’alleanza strategica con il Movimento 5 Stelle ispirata da Bettini e battezzata da Zingaretti come il «nuovo centrosinistra».
Peraltro Bettini nega esplicitamente di considerare il M5S l’alleato ideale.
Eppure sembrava il contrario e anzi continua a sembrare, a cominciare dal primo punto, visto che la lettera di Bettini a Linkiesta, pur sostenendo che il PD avrebbe tantissimi dirigenti capaci di svolgere il ruolo di leader dell’alleanza di centrosinistra, così conclude: «Non si può non vedere che la popolarità che ha conquistato Conte, e il suo rapporto con la maggioranza degli italiani, sono il punto di partenza per ogni ricerca di una leadership della coalizione, rappresentativa e inclusiva dell’insieme delle forze che intendono collaborare». Quindi appunto, come si diceva: il PD rinuncia sin d’ora a governare in prima persona e si affida all’avvocato del popolo.
Non è però l’unica contraddizione contenuta nella replica all’articolo di Mario Lavia. Sostiene Bettini, indicato da Linkiesta come “l’ideologo di Zingaretti”, che si debba marciare dritti verso una legge elettorale di tipo proporzionale (con sbarramento al 4 o 5 per cento), visto il «modo malato e contraddittorio» in cui si è realizzato in passato in Italia lo schema maggioritario. Uno dei pregi del proporzionale sarebbe quello di consentire ai partiti di «esprimere pienamente di fronte agli eletti le loro caratteristiche, i loro ideali, i loro valori, la loro idea dell’Italia» salvo disporsi ad un «trasparente, onesto e motivato» compromesso di coalizione dopo il risultato elettorale. Così dovrebbe essere, in effetti. Sappiamo anzi che il proporzionale tende ad accentuare le divergenze tra i partiti, ognuno dei quali è spinto a sottolineare le proprie specificità nella competizione elettorale con tutte le altre forze politiche. Non si capisce pertanto perché Bettini insista a voler comporre un’alleanza pre-elettorale (con i 5Stelle), o perché sia spinto a dover incoronare sin d’ora Giuseppe Conte leader della coalizione. Proporzionale infatti = no coalizione. Ognuno corre per sé e poi si vede. Cosa che rende particolarmente incomprensibile la strategia volta a consolidare l’alleanza strategica con il Movimento 5 Stelle ispirata da Bettini e battezzata da Zingaretti come il «nuovo centrosinistra».
Peraltro Bettini nega esplicitamente di considerare il M5S l’alleato ideale.
Anche qui: avrei detto il contrario. Bettini sostiene che si tratti invece di una scelta dettata unicamente dalla «duttilità» che deve ispirare i veri riformisti – contrapposto al liberalismo massimalista – e dallo «stato di necessità» in cui il PD si è ritrovato dopo che Matteo Renzi l’ha fatto precipitare al 18 per cento. E a proposito di Renzi (e di Calenda, e della Bonino): sostiene Bettini che il vero problema è che la «grande area di elettorato liberale, moderato, ma chiaramente sovranista e antiautoritario» – mi si consenta di sottolineare il «ma» – non ha una rappresentanza politica che lo faccia contare, perché i suddetti leader passano il loro tempo a bisticciare tra di loro. Par di capire che con questa auspicata forza «riformista e moderata» Bettini sarebbe persino pronto a immaginare un onesto «compromesso di coalizione»; purché dopo il voto, a differenza del Movimento 5 Stelle che Bettini vorrebbe invece sin d’ora e per sempre abbracciato al Pd («l’alleato ideale», verrebbe da dire).
Ma soprattutto colpisce l’idea che i movimenti promossi da Matteo Renzi e da Carlo Calenda, ovvero da un ex segretario del PD per due volte vincitore delle primarie e protagonista della più fattiva stagione di governo riformista degli ultimi anni, nonché del miglior risultato elettorale che si ricordi, e da un eurodeputato eletto dal PD con record di preferenze, ministro dei governi Renzi e Gentiloni, siano a priori e definitivamente considerati altro dall’attuale PD, e non già perché se ne sono posti spontaneamente fuori, ma perché evidentemente considerati altra cosa dal punto di vista degli ideali, dei valori e della loro idea dell’Italia, più distanti dall’attuale PD di quanto non siano considerati i 5Stelle.
E colpisce infine questo: la totale negazione del disegno che nel 2007 portò alla nascita del Partito Democratico con la fusione tra DS e Margherita, l’idea di un unico grande soggetto politico in cui far confluire tutte le culture del riformismo di centrosinistra, un grande partito in grado di farsi motore del cambiamento che necessita al Paese. Quell’idea per Bettini non c’è più, e insieme a quella è defunta ogni vocazione maggioritaria. Siamo tornati ai DS, e quindi la «questione più urgente è dare una rappresentanza all’elettorato riformista e moderato, oggi disperso e senza guida», cioè sperare che nasca la nuova Margherita. Veltroni adieu.
Tutto legittimo, per carità, ma sarebbe interessante, a questo punto, capire se ha ragione Linkiesta quando indica Bettini come «l’ideologo di Zingaretti».
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Quali progressistiGoffredo Bettini vuole un Pd che viaggi verso un altrove che non c’è
Beppe Facchetti
Quello che ormai si è capito essere il vero capo dei dem dice che i grillini sono populisti buoni, addomesticati per merito del partito, e perciò l’integrazione con loro viene naturale, ma solo per superarli. Provi a spiegarlo a Gori, Bonaccini, Sala, Nardella, solo per fare qualche nome
Vincenzo PINTO / AFP
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Forse ha ragione Goffredo Bettini quando protesta di non essere l’ideologo di Nicola Zingaretti. Il legame è diverso, è più di appartenenza, di clan, che di condizionamento delle idee. C’è una “romanità” di fondo che costruisce quasi un filo conduttore. Altrimenti non si spiegherebbe l’intensità di un rapporto che riguarda anche altri: Walter Veltroni, naturalmente, ma personalità molto diverse come Francesco Rutelli e Paolo Gentiloni.
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Ma, ideologo o no, qualcosa vorrà pur dire se Mario Lavia critica Zingaretti per subordinazione ai 5Stelle, e risponde Goffredo Bettini. Da solo, conta più dell’intera segreteria. Bisognerebbe però informare anche i militanti, che conoscono Zingaretti ma poco sanno di Bettini. Se infatti l’assemblea nazionale vota all’unanimità la fine degli aiuti alla Guardia Costiera libica e poi il Governo del PD riconferma gli aiuti, a qualcuno bisognerebbe indicare chi ha deciso il voltafaccia.
Bettini non è mai alla ribalta ma è la storia del PD. Se «trova il tempo» di rispondere a un «giovane intelligente» dobbiamo essergli grati, perchè lui è un «pragmatico», non si perde in fumisterie e ogni giorno deve cercare di far contenti (o ingannare?) dei giovani un pò meno intelligenti ma che hanno bisogno di una guida migliore di quella di un Vito Crimi qualunque. Tenere le briglia di due partiti contemporaneamente, viaggiando tra Roma e Bangkok, non è cosa da poco.
Matteo Renzi avrà anche superato il 40 per cento, ma Bettini ha costruito il 33 per cento della sconfitta di Veltroni e le sorti sarebbero poi state felicemente progressive se non ci fosse stato l’impaccio Renzi, voluto, pragmaticamente beninteso, dalla grande maggioranza del popolo PD ma poi diventato “antipatico” a causa di un Governo che non è stato certo il “migliore” della Repubblica… quello è semmai è stato l’Ulivo di Prodi, con 6 partiti in coalizione e l’appoggio di altri 8, e con un programma omnibus di 400 pagine definito Torre di Babele.
È’ un errore di supponenza che in questi anni hanno fatto in tanti: ai tempi di Berlusconi, molti pensavano di guidargli la mano, visto che il cavaliere era un parvenu e non capiva di politica. Fece poi sempre di testa sua.
Per Bettini sono comunque i populisti buoni, addirittura “sociali”, e secondo lui oggi sono molto cambiati, non semplicemente perché sopravvissuti alla disfatta delle mancate elezioni dell’autunno 2019, ma per l’iniziativa del nuovo PD: paziente, lungimirante, paternalista, pedagogica. Bettiniana, appunto.
Giovani che poco alla volta si adegueranno, daranno una mano al nuovo sistema basato su un PD a 6 stelle (5+1), alleato esternamente con un partito del 10 per cento di cui Bettini vuole essere suggeritore: riformista, moderato, e liberale, confessando per nulla freudianamente che tale non sia il PD che ha in testa.
Come acutamente analizzato da Claudia Mancina nel mettere a nudo la precarietà del sistema di alleanze auspicato da Bettini, quello che non si capisce è come possa crearsi per il PD una maggioranza proporzionale quando i 5Stelle saranno diventati la metà della metà di oggi. Perchè così finirà e in politica, si sa, 5 + 1 non fa 6, ma più spesso 4.
Tutto impegnato nell’utilizzo strumentale dei grillini, Bettini non solo trascura, ma proprio nega la possibilità che il PD possa allargarsi dall’interno risolvendo in chiave di socialismo liberale il trentennale vuoto successivo alla fine del PCI, e cioè appunto la costruzione di una forza riformista di sinistra liberale. Perché non è vero che il partito è stato costruito su due sole anime. Piccola all’inizio ma spazio di espansione nel 40 per cento renziano, c’è sempre stata una forza laica, europeista, modernamente riformatrice che potrebbe star benissimo all’interno del maggior partito della sinistra.
Dove lo schema di Bettini è dunque vecchio, sostanzialmente rinunciatario, è quando ricorre al vecchio modello DS e tiene a considerare non distante ma certamente distinto (alleabile ma diverso) il ruolo della sinistra liberale.
Servono liberali, ma come li vuole lui, che pure sul liberalismo è forse rimasto alle dispense delle Frattocchie. Introduce addirittura un unicum ideologico: la categoria dei liberali non massimalisti, in perfetta simmetria con il nuovo responsabile economico PD, Emanuele Felice, l’inventore del riformismo come male minore, o meno peggio. Roba che dunque non è più di moda in casa PD. Il lavoro sporco del riformismo liberale lo facciano altri, stando ben dentro il recinto del 10 per cento.
Cosa resti al futuro PD dopo tutte queste distinzioni è difficile capirlo: c’è solo un altrove non meglio definito. Impegnato a dare strategicità al governo, Bettini rischia di non darne al PD. Pragmatico certo, non più a vocazione maggioritaria, un pò nostalgico della vecchia sinistra, non troppo riformista altrimenti il responsabile economia Emanuele Felice si arrabbia, non troppo liberale perché è roba per un Luigi Marattin. E soprattutto senza Renzi, Carlo Calenda ed Emma Bonino. Non sia mai.
Un conto è insegnare ai 5Stelle come devono comportarsi in società. Per sopravvivere sono disponibili a fare di tutto. Vedi Luigi Di Maio che spiega, a chi è europeista dai tempi di Ventotene, l’importanza dell’Europa, o difende le ragioni dell’impresa e chiama imprenditori gli ex prenditori. Bibbiano? Chi era costui?.
Aria nuova, utile per mettere in un angolo Casaleggio junior e la sua patetica richiesta di non andar al di là del secondo mandato.
Un po’ più difficile esercitare la stessa supponenza pedagogica con i riformisti che per fortuna sono rimasti nel PD. Come la racconti a Giorgio Gori, Stefano Bonaccini, Beppe Sala, Dario Nardella per citare solo gli amministratori?
Ma Bettini ha l’asso nella manica: l’avvocato del popolo Giuseppe Conte.
La definizione di leader dei progressisti non era una voce fuggita dal seno di un ventriloquo.
Una volta finita la parabola pentastellata, il PD di Bettini ha pronta la soluzione: l’invenzione di Alfonso Bonafede avrà una terza vita, dopo aver deliziato l’estremismo leghista e poi il popolo dei dpcm. Un po’ come l’anatra laccata alla pechinese, in cui la parte più importante non è la carne ma la pelle. La carne si può anche buttar via e il buongustaio si occupa della pelle.
Bettini ama l’Oriente, e quando i 5Stelle non serviranno più, si terrà Conte. Al posto di Zingaretti?