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Cosa resta del bla-bla di Davos





Davos, termometro per le condizioni di salute del globo? Il punto di Carlo Benetti, Market Specialist di GAM (Italia) SGR



Con un anno di anticipo, è probabile che sarà il 2024 l’anno che dividerà in due il decennio.

Gli Anni Venti del nuovo secolo saranno ricordati come anni di “opportunità sprecate”. Gli economisti della Banca Mondiale non hanno dubbi, nel decennio che avrebbe potuto essere trasformativo grazie ai progressi nella tecnologia e nell’intelligenza artificiale, si immiseriscono le prospettive della crescita nel lungo termine.

Il reddito medio pro capite dei paesi in via di sviluppo alla fine del 2024 sarà più basso di quanto non fosse alla vigilia della pandemia.

Il “limite di velocità” dell’economia globale, cioè il tasso massimo a lungo termine a cui può crescere senza innescare l’inflazione, è destinato a rallentare da qui al 2030 mentre il mondo si sta avvitando in una sempre più esplicita “guerra mondiale a pezzi”.

Una volta che le banche centrali avranno riportato l’inflazione sotto controllo, torneremo probabilmente a un contesto economico simile a quello precedente alla pandemia, i tassi d’interesse si collocheranno su livelli strutturalmente bassi.

Delle condizioni e delle prospettive del mondo si è discusso di recente a Davos, nell’annuale autocelebrazione delle leadership politiche ed economiche del pianeta. Il simposio che ha acquisito fama e rilevanza negli anni della globalizzazione, si trova alle prese con un mondo sempre più frammentato, diviso dalle guerre e dalla diffidenza. Eppure, nonostante qualche tratto anacronistico, l’appuntamento di Davos è ancora un utile termometro che misura le condizioni di salute del globo, soprattutto con il Rapporto annuale del World Economic Forum che definisce questo periodo “l’era della policrisi”.

Le prospettive presentate al Forum sono prevalentemente negative nel breve periodo, destinate ad aggravarsi nel lungo termine.

“Gli investitori devono preoccuparsi dei rischi geopolitici?”. La domanda posta dal Financial Times è retorica, a risposta chiusa, nel giro di pochi anni siamo passati dalla massima apertura nel commercio internazionale ai sanguinosi conflitti in Ucraina, a Gaza, nel Mar Rosso; Taiwan è diventata una delle zone più pericolose della terra.

La risposta alla domanda del quotidiano inglese è dunque sì, è ovvio che si debba tener conto del ritorno dei rischi geopolitici. Senza però trascurare il fatto che si tratta di rischi difficilmente fattorizzabili e, dunque, meglio non enfatizzarne l’influenza.

CFRA Research, un think-tank indipendente, ha esaminato quasi due dozzine di crisi militari o terroristiche, da Pearl Harbor all’11 settembre 2001, dalla guerra dello Yom Kippur all’attentato alla metropolitana di Londra del 2005. La reazione dello S&P 500 è stata quella di una correzione immediata e di un ulteriore calo nelle tre settimane successive, mediamente attorno al 5%.

Ma, sempre in media, nei 47 giorni successivi il listino americano ha recuperano le perdite per proseguire nella salita. La lezione è quella del giunco del proverbio siciliano, chinati e aspetta che passi la piena, tieni la testa bassa e resisti alla tentazione di vendere.

La stessa lezione di pazienza ripetuta spesso da Peter Lynch, il leggendario gestore che pochi giorni fa ha compiuto ottant’anni.

La regola generale del portafoglio di Lynch è la sua ampia diversificazione.

Quando nel maggio 1977 gli venne affidata la gestione di un fondo di investimento specializzato in azioni americane, Lynch fece di testa sua. Il fondo era di piccole dimensioni, circa venti milioni di dollari e una quarantina di nomi. Il suo capo lo esortò a vendere e concentrare il portafoglio su non più di venticinque titoli. “Ascoltai con educazione” ricorda Lynch “poi quando uscii dalla stanza portai il numero di titoli a sessanta, sei mesi dopo erano cento e, poco dopo, centocinquanta”.

Sotto la guida di Lynch il fondo passò da venti milioni di dollari a oltre quattordici miliardi e mise a segno la performance di +29,2% medio annuo.

In ultimo, l’esortazione di Lynch a pensare al lungo termine, (“think long-term”). Una regola che può essere riformulata nell’invito a non controllare troppo spesso il portafoglio. Sappiamo che il rimpianto per la perdita è sempre maggiore della soddisfazione per il guadagno, le probabilità di reagire a notizie negative sono più alte, più alte dunque le probabilità di fare danni al portafoglio e alla performance di lungo termine.

“Less is more” è una regola d’oro anche in questo caso.

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