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Cui prodest?La global minimum tax sulle multinazionali rischia di affossare le pmi italiane


I leader dei sette Paesi più industrializzati vorrebbero far pagare alle grandi imprese un’aliquota effettiva pari almeno al 15% sui loro profitti complessivi. Nel suo editoriale anticipato da Linkiesta, l’Istituto Bruno Leoni spiega che il compromesso cercato dal G7 potrebbe costare caro alle piccole e medie imprese

Pexels La “global minimum tax” concordata tra i Paesi del G7 non è – ancora – la rivoluzione che alcuni tra i suoi sponsor sperano di ottenere. Non è neanche detto che sia un passo in quella direzione. Il diavolo, nelle questioni fiscali più che altrove, è nei dettagli, e non solo i dettagli non sono noti: al momento abbiamo solo un auspicio, per quanto solenne e impegnativo, non un vero e proprio progetto di riforma. I leader dei sette Paesi più industrializzati hanno rilasciato una dichiarazione comune in cui si impegnano a promuovere una riforma delle norme internazionali finalizzata a garantire che le imprese multinazionali paghino un’aliquota effettiva pari almeno al 15% sui loro profitti globali. Il gettito aggiuntivo rispetto a quello attuale dovrebbe essere riscosso, almeno in parte, dai Paesi nei quali le grandi imprese realizzano il fatturato, anche se sono prive – in quelle giurisdizioni – di stabili organizzazioni. Ci sono almeno tre questioni concrete in base alle quali l’esito della manovra, se mai si concretizzerà, potrà essere valutato. La prima è la determinazione della base imponibile. Tutto dipende da come viene calcolato il reddito su cui l’aliquota si applica. Già da tempo, la concorrenza fiscale tra Paesi si gioca molto più su questo fronte che sul ribasso delle aliquote nominali: quindi, le conseguenze concrete dell’accordo dipendono quasi interamente da se e come si interverrà su questo aspetto. Il secondo tema riguarda le misure “transitorie” adottate in molte giurisdizioni per contrastare il “profit shifting” delle multinazionali, specie in campo digitale. È il caso della webtax italiana e dei provvedimenti analoghi in altri Stati europei. L’accordo sembra prevedere l’eliminazione di questi balzelli: quale sarà l’esito complessivo, è domanda empirica a cui non si può rispondere in questo momento. Infine, bisogna chiedersi se e quali cambiamenti questo accordo imprimerà sul disegno complessivo dei sistemi tributari. Oggi l’aliquota media sul reddito d’impresa nei Paesi Ocse è del 24%. Nelle giurisdizioni a più bassa tassazione, come l’Irlanda, l’aliquota è del 12,5%, quindi non molto distante dal 15. Negli Stati Uniti, il presidente Joe Biden vorrebbe alzarla dal 21 al 28%: si tratterebbe di un intervento in assoluta controtendenza, visto che dagli anni Ottanta le imposte sul reddito d’impresa sono continuamente calate. Per esempio, in Italia siamo passati dal 32,5% dei primi anni Duemila all’attuale 24%. Questo è stato principalmente conseguenza della deprecata concorrenza fiscale: ma, all’atto pratico, ha favorito anzitutto le piccole e medie imprese italiane che, per la loro dimensione o i loro settori merceologici, non hanno la possibilità di delocalizzare. Arriviamo così alla conclusione: il compromesso del G7 finirà per attenuare, o eliminare, i vincoli che finora hanno limitato la voracità fiscale degli Stati? Se no, si tratta forse di un’opportunità per fare ordine nel sistema tributario internazionale. Se sì, nonostante l’intero dibattito sia stato condotto agitando il feticcio delle multinazionali cattive, a pagarne il prezzo saranno soprattutto le pmi. L’articolo è disponibile su IBL



https://www.linkiesta.it/2021/06/global-minimum-tax-multinazionali-tasse-tassazione-unione-europea-italia-stati-uniti-piccole-imprese

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