Le dimensioni della sconfitta del centrosinistra
Ha ottenuto uno dei risultati peggiori dal Dopoguerra e in Parlamento avrà poco più di un centinaio di eletti
(ANSA/GIUSEPPE LAMI) Alle elezioni politiche del 25 settembre il centrosinistra ha ottenuto circa il 26,3 per cento dei voti, poco più di un quarto del totale, e il Partito Democratico ha preso poco più del 19%. È un risultato di poco superiore a quello del 2018, ritenuto la sconfitta peggiore della sua storia, e inferiore rispetto a quello previsto dai sondaggi all’inizio della campagna elettorale. La leadership del segretario Enrico Letta appare fortemente a rischio, e mentre si ipotizzano le sue dimissioni e si parla del prossimo congresso gli elementi che testimoniano le dimensioni della sconfitta della coalizione sono diversi. In un certo senso infatti stavolta è andata ancora peggio rispetto al 2018, già commentato come un risultato terribile e associato al declino della popolarità dell’allora segretario Matteo Renzi e alla forte espansione del Movimento 5 Stelle. In termini assoluti alla Camera il centrosinistra ha ottenuto 7 milioni di voti contro i circa 8,5 del 2018 (conteggiando anche Liberi e Uguali, che nel frattempo è stato riassorbito dalla coalizione di centrosinistra), complice l’affluenza molto più bassa di queste elezioni. Secondo le ultime proiezioni eleggerà in Parlamento circa 120 fra deputati e senatori: mai così pochi, e non solo per il taglio del numero dei parlamentari. Nella scorsa legislatura il solo Partito Democratico ne aveva eletti 166. Le possibili dimissioni di Letta dalla guida del partito sono uno dei principali argomenti del giorno dopo le elezioni, ma non sono ancora arrivati commenti ufficiali dalla dirigenza del PD. L’unica dichiarazione ufficiale è stata affidata a Debora Serracchiani, che nelle prime ore della mattina di lunedì ha parlato di «giornata triste per il paese». La coalizione sembra contare ormai su pochissimi territori in cui può dire di essere competitiva con la destra. Gli unici collegi plurinominali in cui è risultata prima, al momento, sono tre alla Camera – Torino città, poi un collegio in Emilia-Romagna e uno in Toscana – e i collegi uninominali in cui il proprio candidato o candidata è arrivato prima sono circa una decina su 200 totali. Il centrosinistra ha perso tra gli altri posti a Modena, dove all’uninominale alla Camera non è stato eletto il sindacalista Aboubakar Soumahoro in un collegio che era considerato di fatto “blindato”, cioè praticamente sicuro. Se si prende il dato regionale, inoltre, il centrosinistra non è la coalizione più votata né in Emilia-Romagna né in Toscana, le regioni considerate storicamente più “rosse”. In alcune regioni dove fino a qualche anno fa andava molto forte come Umbria e Liguria è dietro alla destra rispettivamente di 19 e 12 punti. In tutto il Sud e le isole il PD non è stato il secondo partito ma il terzo, dietro al Movimento 5 Stelle. Nelle prime fasi dello scrutinio il segretario del PD Enrico Letta aveva fatto filtrare alla stampa che «in un momento in cui con la guerra soffia un vento di destra, il PD resta uno dei partiti socialisti più forti del mondo». Sembra un’affermazione un po’ spericolata, tanto più che col voto di domenica il centrosinistra italiano è diventato uno dei meno votati a livello europeo. Secondo un’analisi del Centro Italiano Studi Elettorali (CISE) dell’università Luiss, in tutti i principali paesi occidentali l’area di centrosinistra ha ottenuto almeno il 30 per cento dei voti alle ultime elezioni politiche. (grafico pubblicato dal CISE) Da quando era diventato segretario del PD, circa un anno e mezzo fa, Letta aveva provato ad allargare la coalizione costruendo prima un’alleanza col Movimento 5 Stelle, poi provando fare un accordo elettorale con Azione di Carlo Calenda. Nessuna delle due operazioni è andata a buon fine, per ragioni diverse. Sia il M5S sia Azione hanno passato buona parte della propria campagna elettorale ad attaccare il PD e il centrosinistra, e al contempo hanno fatto sapere più volte di considerarsi molto lontani fra loro. Al momento sembra difficile, a meno di un cambio radicale del quadro politico o delle leadership dei vari partiti, immaginare che possano stare tutti insieme nella stessa coalizione. Il buon risultato del Movimento 5 Stelle ha spinto molti a ipotizzare che una eventuale coalizione con il PD sarebbe stata competitiva e avrebbe sottratto molti seggi alla destra, anche se sono valutazioni un po’ difficili da fare visto che il M5S ha fatto una campagna elettorale in opposizione alla linea del governo Draghi, sostenuta invece dal PD. È evidente però che il centrosinistra, da solo, non è stato competitivo quasi da nessuna parte, e il M5S potrebbe finire per ottenere più seggi nei collegi uninominali. La campagna elettorale impostata da Letta, che ha deciso di insistere sulla polarizzazione e sulla definizione del proprio schieramento in opposizione a quello della destra più che in virtù delle proprie proposte e dei propri argomenti, era giudicata poco efficace anche prima del voto, in una situazione in cui secondo molti analisti la maggior parte degli elettori indecisi, e quindi potenzialmente da convincere, era già nell’area del centrosinistra e quindi non avrebbe probabilmente votato Fratelli d’Italia. La ricostruzione di un’area politica che possa opporsi alla destra sarà probabilmente il tema principale del prossimo congresso del Partito Democratico, che rimane comunque il più votato fra i partiti che siederanno all’opposizione. Al momento è programmato per marzo, ma è possibile che dopo la sconfitta di domenica Letta possa decidere di anticiparlo. Per la sua successione il candidato più forte sarebbe il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, da tempo indicato come assai determinato ad assumere la leadership nazionale del partito. Da un po’ di tempo si parla anche di una possibile candidatura della sua vice, Elly Schlein, oltre che del ministro del Lavoro Andrea Orlando e del vicesegretario Peppe Provenzano.
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