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– N.8 Ascesa e caduta dell’acciaio di Stato: un salasso da 8 miliardi


Arcelor Mittal




Il Sole 24 OreMartedì 9 Gennaio 2024 –

Paolo Bricco

Il 9 luglio 1960 a Taranto viene posata la prima pietra dell’acciaieria. Il 27 novembre 1964, il presidente del Consiglio Aldo Moro, che guida il secondo governo di centrosinistra, assiste alla prima colata di acciaio. Lo statista democristiano è attorniato da quattro ministri Emilio Colombo, Giorgio Bo, Giovanni Pieraccini e Carlo Arnaudi.

Il 29 gennaio 1965 è attivato il secondo altoforno. Il 10 aprile 1965, a inaugurare lo stabilimento dell’Italsider, è il presidente della Repubblica, il socialdemocratico Giuseppe Saragat: «Io sono qui per solennizzare l’entrata in funzione di un grande stabilimento industriale. E anche in questa occasione voglio recare agli italiani del Mezzogiorno l’assicurazione che lo Stato ha preso effettivamente e seriamente coscienza della realtà meridionale e si adopera per mutarla».

È il quarto polo siderurgico italiano dopo Cornigliano, Piombino e Bagnoli. La scelta di Taranto ha una duplice razionalità. La prima razionalità è di politica industriale. La seconda razionalità è di geografia economica. La politica industriale della seconda metà degli anni Cinquanta e degli anni Sessanta – uno dei fili rossi dello sviluppo italiano, con i suoi miracoli e i suoi errori, le sue

coerenze e le sue contraddizioni –ha un punto fermo: la concentrazioneindustriale produce oggi occupazione e benessere e domani produrrà diffusione di cultura di impresa e attecchimento di imprenditorialità.


Sia al Nord sia al Sud. Questo pensiero fisso è il fulcro della programmazione economica e, con varie sfumature, è condiviso dal Partito Socialista, dal Partito Socialdemocratico, dal Partito Comunista, dal Partito Repubblicano e dalla Democrazia Cristiana. Ed è il sottostante culturale degli uffici studi delle grandi imprese pubbliche e private, dall’Iri all’Eni, dalla Fiat all’Olivetti.

L’investimento su Taranto vale 500 miliardi di lire di allora.

La seconda razionalità è di geografia economica. Taranto è scelta perché è la capitale industriale del Sud. Lo è dall’Ottocento. La Marina militare e l’arsenale da sempre hanno garantito una identità produttiva e manifatturiera fatta di cantieri, di linee di produzione e

di organizzazioni complesse. Ha il porto. In più la fine della Seconda guerra mondiale ha ridotto

l’attività dell’arsenale che ha dovuto licenziare migliaia di addetti.

Mentre il resto dell’Italia sperimenta il boom economico, Taranto è una città industriale che vive

una crisi industriale e che, nell’industria, trova una ipotesi di nuova prosperità.

L’impatto della siderurgia sull’ambiente, con le tecnologie primordiali di allora, è durissimo. Nel

suo lavoro di archeologia storica lo scrittore Alessandro Leogrande ha

trovato due documenti che chiariscono la terribile fusione fra necessità

e consapevolezze. Prima di tutto le parole del democristiano An-gelo Monfredi, sindaco dal 1957 al 1961, gli anni in cui prende forma il destino di Taranto: «Avremmo costruito

l’acciaieria anche al centro della città». Una frase allo stesso tempo onesta e terribile, che fa capire molto anche del destino tragico del rione Tamburi, il più esposto all’inquinamento.

Il secondo documento trovato da Leogrande è il diario privato di Alessandro Leccese, ufficiale sanitario, che scrive nel giugno del 1965: «Quando, per l’aggravarsi della situazione, sono intervenuto, in qualità di Ufficiale Sanitario, con un’ordinanza indirizzata al Direttore

del Centro Siderurgico e al Presidente dell’area di Sviluppo Industriale, è successo il finimondo,

perché quest’ultimo, che, tra l’altro, è segretario provinciale della Dc, si è sentito leso nella sua insindacabile sovranità».

L’Italsider è un tassello del mosaico della nuova Italia manifatturiera.Nei progetti dell’Iri, Taranto è

uno snodo nevralgico. E, fra realtà e rappresentazione, lo stabilimento che è grande una volta e mezzo la città su cui incombe diventa un simbolo per il Paese. La messa di Natale

del 1968 viene celebrata nella fabbrica da papa Paolo VI. Come ricorda Salvatore Romeo in “L’acciaio in fumo. L’Ilva di Taranto dal 1945 ad oggi” (Donzelli), nel 1970 vengono

collocate dieci centraline per monitorare, per un anno, le emissioni della Italsider. Nel 1971 sono resi pubblici i dati: la concentrazione delle polveri sottili è dieci volte maggiore nell’area industriale rispetto al centro della città.

Nel 1971, a Palazzo Chigi c’è Emilio Colombo, l’esponente democristiano che, sette anni prima, aveva accompagnato Aldo Moro alla prima colata. È un governo strutturato e pesante, che ha come vicepresidente del Consiglio il leader socialista Francesco De Martino, agli esteri lo stesso Moro, al Bilancio e alla Programmazione economica il socialista Antonio Giolitti, all’Industria il

potentissimo DC Silvio Gava e, alle Partecipazioni Statali e al Lavoro, altri due democristiani di influenza e levatura come Flaminio Piccoli e Carlo Donat-Cattin.

Nella politica economica e nella politica industriale italiane, in quell’anno, si opera una spaccatura. Perché il progetto dell’Italsider è quello di raddoppiare la già gigantesca struttura industriale diTaranto, passando da 5,7 a 10,4 milioni di tonnellate di acciaio prodotto

ogni anno. Il Partito Comunista, che fino ad allora era stato sulla stessa linea dei partiti di

maggioranza, ha dei dubbi. In particolare, adopera lateralmente il suo quotidiano, l’Unità, per dire di no: “Taranto, mille miliardi per un cappio d’acciaio” è un suo titolo.

Mille miliardi di lire è il budget di allora. Il cappio è la monocultura industriale che, perfino per un

partito di fabbrica come il Pci, rischia di assorbire ogni altra attività economica e sociale.

Nel 1975 il raddoppio è ultimato. La superficie dell’impianto si amplia a 15 milioni di metri quadrati. Il suo potenziale produttivo è di 11,5 milioni di tonnellate di acciaio. I dipendenti sono ventimila. È la maggiore acciaieria europea. È in linea con gli stabilimenti giapponesi e

americani più avanzati. Da allora, grazie a Taranto, l’Italia diventa il secondo produttore di acciaio in Europa, dopo la Germania.

Il problema di Taranto però è doppio. Il problema di Taranto si chiama Taranto e si chiama Italia. Si chiama Taranto perché l’acciaieria non riesce mai a stabilire un punto di equilibrio con il territorio. Dopo il raddoppio emergono tensioni significative, perché molti degli operai

non siderurgici che hanno costruito la nuova parte della fabbrica sono rimasti disoccupati. Ma il problema di Taranto si chiama Italia anche perché la siderurgia nazionale non trova un assetto di mercato efficiente ed efficace. Taranto è, per questo, uno snodo nevralgico della vita concreta e simbolica delPaese. Nel marzo del 1980, in un periodo di manifestazioni e di scioperi, un presidente della Repubblica con un gusto per il popolo pre-populista come il socialista Sandro

Pertini si ferma a Taranto alla mensa dello stabilimento, dove lavora il fratello di sua moglie Carla, e mangia con gli operai fave e cicorie.

Gli anni Ottanta sono quindi il decennio della grande crisi dell’industria siderurgica nazionale e internazionale. Vengono colpite le imprese pubbliche e private di tutto il mondo. Il raddoppio è, per Taranto, l’azzardo faustiano. Nessuno riesce a governare un simile organismo.

E, questo, si coglie soprattutto quando l’intero contesto europeo si deteriora e, a livello comunitario, si programma una riduzione netta dell’output, con chiusure ed eliminazione di manodopera in tutto il continente.

La crisi dell’economia pubblica si interseca, si alimenta, si sovrappone – con non poche ambiguità e zone d’ombra, ancora tutte da capire e da studiare – con la progressiva

unificazione europea doganale e concorrenziale, che ha come orizzonte finale la moneta unica. Tutto questo si trasforma in un enorme amplificatore di quello che accade fra Taranto, Novi Ligure, Cornigliano, Roma e Bruxelles.

Il primo punto è che l’acciaio italiano diventa uno dei molti capitoli dell’accordo del 1993 Van Miert-Andreatta. Il commissario alla Concorrenza Karel Van Miert critica duramente

l’Italia per la ricapitalizzazione e i salvataggi con fondi pubblici delle aziende pubbliche. Il

casus belli è l’Efim. Ma il problema è più generale. Il ministro degli Esteri del governo Ciampi, Beniamino Andreatta, si accorda con lui: l’Italia avrebbe ripianato i debiti dell’Efim in via eccezionale, impegnandosi a ridurre le passività di Iri, Eni e Enel entro il 1996, attraverso

corpose privatizzazioni.

Il secondo punto è che l’Italsider è andata fuori controllo. I bilanci sono fuori controllo. La politica e i sindacati avviluppano, dagli anni Settanta e Ottanta, l’azienda in un groviglio poco armonioso. A Taranto alcune ditte impegnate a commerciare in rottami ferrosi, che dispongono di uffici e di spazi logistici all’interno dell’acciaieria, sono di proprietà del clan di Antonio

Modeo, soprannominato “Il Messicano”, ucciso nel 1990 dai suoi stessi fratelli per la leadership

sulla Sacra Corona Unita.

Nel 1993 l’Italsider viene disaggregata in due società: la Acciai

speciali Terni, ceduta nel 1994 ai tedeschi di ThyssenKrupp, e la Ilva laminati piani, venduta nel 1995 alla famiglia Riva. Secondo i calcoli dell’ufficio studi di Mediobanca, l’indebitamento indotto dalla sola Ilva prima della cessione è mostruoso: diciassettemila e quattrocento otto miliardi di lire. I Riva comprano Taranto, Cornigliano e Novi Ligure per duemila e ventitré

miliardi di lire.

L’avventura siderurgica dell’Ilva è costata al bilancio pubblico, dal

Secondo dopoguerra al 1995, quindicimila trecento ottantacinque miliardi

di lire (circa 8 miliardi di euro).

Al primo giro, allo Stato italiano che adesso torna azionista di controllo in un contesto del tutto mutato e seppur a tempo, non è andata benissimo. E ora?

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