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Summit G7 26-28 giugno 2022 : i punti salienti


Usa, Canada, Giappone, Gran Bretagna,Germania, Francia, Italia, appartengono al gruppo G7

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/cosa-restera-di-questo-g7-il-summit-5-highlights-35581

1. Sostegno all’Ucraina: “fino a quando sarà necessario”

Se c’è una cosa su cui i leader del G7 si sono dimostrati compatti negli ultimi mesi, è il sostegno all’Ucraina contro l’invasione russa. Infatti, quanto dichiarato al summit di Elmau - “sosterremo l’Ucraina per tutto il tempo che sarà necessario” - è solo la “punta dell’iceberg” di un lavoro di coordinamento lungo quattro mesi che ha permesso l’adozione congiunta di vari pacchetti di sanzioni senza precedenti. Il vertice in realtà non ha visto sostanziali novità, a parte la probabile estensione delle sanzioni alle esportazioni russe di oro (vedi sotto), ma è servito per sottolineare quanto fatto fino ad ora in termini di aiuti a Kiev, sul piano militare, umanitario e finanziario (sono stati stanziati complessivamente 29,5 miliardi di dollari per supportare l’economia ucraina), oltre a riaffermare la volontà dei Paesi G7 di coinvolgere il resto della comunità internazionale nell’affrontare emergenze globali come l’incombente crisi alimentare. Il documento dei leader riconosce anche le necessità della ricostruzione economica e infrastrutturale dell’Ucraina auspicando la creazione di una “piattaforma” per la ricostruzione e di un “fondo” di solidarietà. Troppo poco? In realtà, era difficile aspettarsi molto di più in questo momento: a livello economico, le sanzioni emesse fino ad ora dai Paesi G7 sono già piuttosto ampie; a livello militare, bisognerà invece attendere il summit NATO che si svolgerà a Madrid subito dopo il G7.

2. Energia: price cap sì, ma come?

Joe Biden era atterrato a Elmau mettendo sul tavolo la proposta di imporre un tetto al prezzo del petrolio russo: una misura considerata meno prioritaria da parte dei Paesi UE membri del G7 per i quali invece sarebbe molto più importante un meccanismo volto a calmierare il prezzo delle importazioni di gas. Alla fine, però, i Paesi UE membri del G7 sono riusciti a vincere la riluttanza degli Stati Uniti rispetto all’adozione di un price cap sul gas. Un merito ascrivibile soprattutto a Mario Draghi, primo a proporre tale misura in ambito UE e che consente di raggiungere un importante obiettivo politico: il riconoscimento del price cap come strumento adatto per tutelare aziende e consumatori europei e ridurre i guadagni della Russia derivanti dall’export energetico. Il comunicato finale del vertice riconosce la decisione dei Paesi UE membri del G7 di individuare le modalità più idonee per implementare un generico tetto al prezzo dell'energia: un primo passo significativo, ma ancora tutto da implementare e che non colpirà Mosca nell’immediato. Per quanto riguarda invece il petrolio, il linguaggio del comunicato è più esplicito e manifesta l'intenzione del G7 di limitare tutte le esportazioni marittime di greggio russo, "a meno che non venga venduto al di sotto di un certo prezzo definito in consultazione con partner internazionali".

È dunque chiaro ai governi dei 7 che ci sia bisogno di intervenire per ridurre le entrate russe. Nei mesi che hanno preceduto l’invasione, le entrate giornaliere di Mosca derivanti dalla vendita di petrolio e gas naturale sono esplose: triplicate quelle petrolifere, addirittura sestuplicate quelle del gas. Fino a superare il miliardo di dollari al giorno, per poi assestarsi nell’ultimo mese sul mezzo miliardo al giorno.

Se intorno al tavolo è stato quindi raggiunto il consenso su cosa fare, a rimanere incerto è invece il modus operandi. In particolare, c’è qualche dubbio sull’effettiva utilità di un price cap sul petrolio essenzialmente per due motivi. Primo: al momento, le auto-sanzioni (ovvero la tendenza delle imprese a non acquistare petrolio russo pur in assenza di sanzioni) occidentali, e soprattutto europee, costringono già Mosca a vendere il proprio greggio a forte sconto sui mercati internazionali. Un tetto al prezzo sarebbe dunque utile? E quanto servirebbe, se entro fine anno le importazioni europee di greggio via mare dovranno comunque scendere a zero? Secondo: il petrolio russo Urals viene già venduto a un forte sconto rispetto al Brent. Quale sarebbe dunque l’efficacia di un price cap sul greggio di Mosca – e quindi i benefici per gli acquirenti occidentali - se il petrolio acquistato altrove dovesse rimanere molto caro?


3. Infrastrutture: 600 miliardi per i Paesi in via di sviluppo

Uno degli impegni principali presi dal G7 a Elmau è stato l’annuncio di 600 miliardi di dollari che saranno investiti in progetti infrastrutturali sostenibili in Paesi in via di sviluppo entro il 2027. Un impegno significativo che ha come finalità principale il contrasto all’espansionismo cinese nei Paesi a basso e medio reddito attraverso la strategia della Nuova Via della Seta e per favorire la costruzione di infrastrutture che sostengano la transizione energetica in Paesi con dotate capacità finanziarie e progettuali. Tuttavia, a ben guardare sembra che si tratti di un “collage” di risorse in buona parte già stanziate: ci sono infatti i 300 miliardi del Global Gateway, strategia lanciata dalla Commissione europea a fine 2021 per mobilitare investimenti in connettività e infrastrutture di qualità soprattutto attraverso banche di sviluppo come la BEI (di nota l'iniziativa NDICI-Global Europe) e la BERS. E poi ci sono 200 miliardi che gli Stati Uniti hanno promesso tramite l’iniziativaBuildBackBetter for the World” (B3W), volta a colmare il gap infrastrutturale dei Paesi in via di sviluppo e che era stata lanciata al summit G7 dello scorso anno, ma che fino ad ora ha stentato a decollare. Infine, gli ultimi 100 miliardi dovrebbero essere garantiti dagli altri membri del forum. Nelle intenzioni dei leader G7 questi 600 miliardi dovrebbero essere solo un primo passo con lo scopo di attirare altre risorse attraverso istituzioni finanziarie multilaterali, banche nazionali di sviluppo e fondi sovrani. Anche perché la “potenza di fuoco” cinese attraverso la BRI sembra molto più intensa: pur non esistendo cifre ufficiali, è possibile stimare che Pechino abbia pianificato investimenti superiori a 1000 miliardi di dollari entro il 2027. Quindi questo stanziamento, oltre a non comprendere solo risorse “fresche”, andrà messo alla prova dei fatti: quanti di questi soldi si tradurranno in veri investimenti?



4. Materie prime: le sanzioni valgono “oro”

Una mossa “in gran parte simbolica”. Sembra essere questa l’opinione prevalente tra gli osservatori del mercato dell’oro dopo l’annuncio che il G7 potrebbe aggiungere questa materia prima nella lista dei prodotti russi sanzionati, e che dunque i Paesi occidentali si impegnano a non comprare. Una lista che per l’UE già comprende acciaio, ferro, legname, cemento, alcuni fertilizzanti e i prodotti ittici, e che da agosto includerà anche il carbone. Per la verità, nel comunicato finale del vertice manca un riferimento esplicito a questa misura, che potrebbe comunque essere oggetto di un prossimo “giro di vite” in tema di sanzioni volte a ridurre ulteriormente i ricavi russi derivanti dalle esportazioni di materie prime.

La produzione russa conta per l’8% della produzione mondiale di oro (con entrate per le casse di Mosca pari a oltre 15 miliardi di dollari nel 2021): la seconda al mondo, subito dietro la Cina e davanti all’Australia. Tuttavia, le promesse di ban hanno avuto sinora un effetto molto sfumato sui mercati, di fronte a due evidenze: la prima, che le auto-sanzioni europee hanno di fatto già reso tabù l’acquisto della materia prima da parte di molte aziende occidentali; la seconda che, come nel caso del petrolio, l’assenza di vendite ai Paesi occidentali è compensata da acquisti da parte di grandi Paesi asiatici, come India e Cina. È dunque probabile che l’impatto di questa ulteriore misura nei confronti di Mosca sia soprattutto simbolico, andando a riempire le ultime “falle” lasciate aperte dai Paesi occidentali relative a beni e servizi che non sono ancora stati oggetto di sanzioni.



5. Geopolitica: il G7 conta ancora?

Il G7 è ancora un forum attuale o è condannato ad una progressiva irrilevanza, in un mondo caratterizzato da nuovi blocchi di potere e da una crescente frammentazione geopolitica? In base ad un criterio puramente economico, secondo la “classifica” odierna che mette in fila i Paesi in base al Pil tra i membri “di diritto” del G7 ci sarebbero anche Cina e India, mentre l’Italia ne sarebbe stata esclusa già da diverso tempo. In realtà, oggi il G7 va considerato principalmente per il suo significato geopolitico, ovvero come il gruppo delle principali democrazie occidentali. Un gruppo sempre più minoritario e che dunque sta cercando di diventare più inclusivo, coinvolgendo anche altri Paesi che fanno parte del G20 e non solo. Ad esempio, quest’anno al vertice di Elmau sono stati invitati anche cinque Paesi “partner” che rispondono al criterio di essere grandi democrazie emergenti: Argentina, India, Indonesia (anche in quanto Presidente di turno del G20), Senegal e Sudafrica. È curioso notare come Delhi e Pretoria facciano parte (insieme a Brasile, Cina e Russia) anche del forum BRICS, il cui vertice si è appena svolto sotto presidenza cinese ed è terminato senza alcuna condanna nei confronti di Mosca per l’invasione dell’Ucraina. Insomma, nelle complesse relazioni internazionali di oggi è necessario fare i conti con alleanze a “geometrie variabili”: per i Paesi del G7 l’obiettivo è quello di non restare isolati ma di creare “ponti” con il maggior numero possibile di partner.


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